Presentazione del volume di Antonio Samaritani Una diocesi d'Italia: Ferrara nel cinquantennio in cui sorse l'Università (1348-1399) Ferrara 1991 (Atti e Memorie della Deputazione ferrarese di storia patria, s. 4 8)

Signore, signori, amici e colleghi,
il libro sui cui ci accingiamo a svolgere alcune riflessioni è sicuramente un'opera coraggiosa, coraggiosissima. Potrebbe sembrare a prima vista uno dei tanti volumi d'occasione, apparso nell'anno della celebrazione centenaria dell'Università ferrarese. Anzi una rivalsa nei riguardi di chi ha voluto un volume celebrativo che, curato ed uscito dai lombi accademici, ha evitato accuratamente di servirsi dei campioni locali di conoscenza medievistica. Senza dubbio con la legittima e meritoria preoccupazione di non scivolare nel provincialismo, insomma di salvaguardare l'alto livello scientifico di una pubblicazione che fin dal titolo non voleva affatto scherzare: La rinascita del sapere. Peccato che nel volume si possano cogliere una vera miriade di perle, di cui possiamo dare qui un rapidissimo ma riteniamo significativo campionario. Gregorio VII, ad esempio, vi è ricordato come - cito testualmente - «fiero oppositore del Barbarossa»! Che sarebbe come dire più o meno che papa Pio IX, papa Mastai Ferretti, avversò decisamente Adolf Hitler... Altrove si legge che «Nel 1391, quando la nostra università venne fondata, l'ospedale [sic: l'ospedale ] esisteva già da due secoli»! Trascurando il mistero sul preciso ospedale in questione, si ha la vaga impressione che l'autore non abbia proprio le idee chiarissime sugli ospedali medievali. Ancora: scopriamo improvvisamente che Pietro d'Abano che credevamo vissuto a cavallo del 1300 è invece un medico del Cinquecento, che Paracelso era un «clericus vagantes», e che Valafrido Strabone, che pensavamo vissuto al tempo dei Carolingi, fu invece un illustratore di piante del Rinascimento.
Dico il peccato e non il peccatore, anzi: i peccati ed i peccatori, ed ammetto tranquillamente che anche tra gli studiosi esistono i distratti ed i bontemponi; ma sarebbe ora che questa città la smettesse con l'essere così ingrata nei riguardi dei suoi figli migliori. Prendiamo un signore che mi sta molto a cuore: Riccobaldo da Ferrara fu tra gli uomini più colti del suo tempo; ebbene ci sono voluti due studiosi tedeschi, due romagnoli, un padovano ed uno anglosassone perché qualcuno si occupasse di lui; in quest'anno centenario si sono fatte tante spese consistenti con scarsissima credibilità, e nessun ente si è fatto avanti per acquistare un manoscritto trecentesco di area francese della maggiore opera di Riccobaldo che l'antiquario Kraus di New York ha ancora nel suo catalogo per la modesta cifra di 28.OOO dollari, come ormai segnalo invano da 4 anni; e non c'è neppure una viuzza in questa città o nei sobborghi che porti il nome di Riccobaldo: siamo proprio certi che sia meglio - anche prescindendo dalle patrie memorie - via Gelsomino? Prendiamo il Tebaldeo, giudicato dai contemporanei tra i maggiori poeti del tempo, tanto che Raffaello lo raffigurò nel suo Parnaso: non gli è toccata sorte migliore di quella toccata a Riccobaldo. Qualcuno potrebbe dirmi che faccio polemica fuori luogo; ma io non sto chiedendo medaglie, passerelle televisive, monumenti o benefici: piango solo sulle tante risorse sprecate. Se non ci fosse stato Samaritani con questo suo libro, e non ci fosse stata la Deputazione ferrarese di storia patria, quale sarebbe il bilancio storico scientifico di quest'anno centenario? Qualche modesto recupero documentario, per altro in ambiti disciplinari che continuiamo - secondo me con buonissime ragioni - a considerare accessori; ma non una sola parola nuova. Nessuna sintesi è stata tentata: l'idea più brillante è stata quella di ristampare il vecchio Visconti. Allora la polemica non è questa mia, modestissima; la vera polemica è proprio quella di Samaritani! Polemica implicita, naturalmente: Samaritani non colpisce allo stomaco come Sgarbi né strizza l'occhio come Alberoni. Ma è un fatto che chi lavora seriamente costringe ad un confronto. Quando Pinocchio decide di diventare un bravo scolaro deve fronteggiare i vecchi compagni scapestrati, che gli dicono: «Tu ci rovini la reputazione...».
Veniamo dunque ai fatti, anzi a qualche cifra: 1/2 secolo di storia, 1 chilo e 720 grammi di carta, 800 pagine, 10 giorni per leggerlo, 3 mesi per studiarlo, 6 per schedarlo. Forse meno, perché un indice - di cui sono direttamente responsabile, naturalmente compresi gli errori - consente una navigazione più agevole, anche se aumenta di un centinaio di pagine il malloppo. La lettura non è facile ed accattivante come una raccolta di articoli del Resto del Carlino, ed è certo che nessun impiegato della Cassa di Risparmio allineerà mai questo volume nella libreria del salotto buono, perché oltre tutto non è neppure lussuoso. E' opera serissima di uno studioso del mondo ecclesiastico ferrarese, un repertorio di somma utilità. Se poi vogliamo vedere come si collochi in un quadro più vasto occorrerà spendere qualche parola.
E' indubbio che si tratti di storia locale, con ugualmente indubbio riferimento costante alle linee della storia generale, per quanto lecito e possibile. Ma per quanto lecito e possibile, si badi bene. Già dal titolo, se non mi inganno, Samaritani prende le distanze da chi ha la perenne tentazione di tutto omologare in una tipologia onnicomprensiva. L'attenzione è per la concretezza, l'estrema concretezza direi, e le peculiarità locali. Tanto che spesso Samaritani non si trattiene dal constatare la varianza, alle volte la controtendenza di certi fenomeni rispetto a ciò che si crede normalmente avvenisse. Ora questa è, in campo limitato se si vuole ma senza possibilità di equivoco, esperimento di riformulazione del punto di vista, una proposta di euristica diversa. In tema di storia locale le cose oggi non sono di molto cambiate rispetto a quanto ne diceva nel 1980 Cinzio Violante: «Si è avuto in questi ultimi anni un improvviso acuto interesse delle amministrazioni locali per il patrimonio storico, documentario, archeologico e per le ricerche che lo riguardano. Certo, tutto ciò deriva ormai anche dalla moda, secondata da giovani architetti e sociologi, ma nasce soprattutto da una nuova situazione politica: infatti le forze politiche intendono trarre occasione dall'incremento e dall'estensione delle autonomie locali per promuovere direttamente le iniziative dei cittadini, sollecitandoli ad occuparsi di problemi storici locali in funzione dei propri problemi immediati, territorialmente definiti». Non si può non condividere in generale questa che comunque, più che una valutazione, è una presa d'atto. Ma è evidente che le ragioni strumentali, occasionali, a fini ben mirati e particolari, non sono quelle che sottostanno all'impegno dell'autore del volume che questa sera ci occupa.Né si può constatare un'assenza di continua tensione al rapporto tra storia "generale" e fatti locali, in una sottintesa svalutazione della prima allo scopo di esaltazione dei secondi. Direi che invece la preoccupazione costante di Samaritani è quella di enucleare localmente le nervature dei fenomeni di storia ecclesiastica, di cui si occupa, nella loro coerenza interna, nei legami organici che è possibile identificare. Tanto meno risultano presenti le prospettive che Giancarlo Andenna, dicendo di riprendere Violante, additava: «... Cinzio Violante ha collocato la nuova tendenza storiografica che si è venuta affermando nella società italiana da almeno due decenni, a mezza via tra le istanze politiche e quelle culturali. Infatti è indubbio che l'esigenza di conoscere il luogo ove si abita e si lavora nasce dal desiderio di salvaguardare l'ambiente contro ogni forma di speculazione, di degrado o di abbandono... in altre parole essa trova la sua genesi in una istanza di natura politica, mirante a difendere i residui delle tradizioni del passato in cui si spera di recuperare la propria identità di gruppo sociale o di comunità organizzata... La sintesi impone di considerare il reciproco influsso dei due punti di vista, delle due diverse modalità di approccio, l'azione e la reazione che le varie forze di volta in volta determinano, nonché il loro dialettico contrapporsi, la disperata ricerca di alleanze esterne al quadro considerato e lo scontro tra i gruppi, sino al prevalere di quello più potente. La verità storica così concepita, anche ad un livello più complesso di conoscenza, risulta lotta tra gruppi per la conquista del potere. Ma una simile verità può soddisfare la nostra esigenza di conoscere?, il nostro desiderio di comprendere il divenire delle società umane pur collocate in uno spazio ristretto? E' possibile ritrovare istituzioni capaci di unificare i diversi gruppi sociali in contrapposizione? E ancora: sono esistite realtà capaci di indirizzare la loro azione verso una finalità di liberazione dell'uomo da ogni forma di servitù?, ci sono state istituzioni rivolte al mantenimento della pace, all'eliminazione delle sperequazioni materiali e spirituali esistenti tra gli uomini?».
Che si debba abbandonare la storia "generale", quella che tende ad esprimere sinteticamente le linee di tendenza politica e culturale, se si vuol cogliere il senso proprio dei perché dell'esistenza umana, è invece - a differenza da quanto aveva espresso Violante - l'espressione di un giudizio epistemologico, che ha a sua volte le sue ragioni in una dimensione religiosa, non scientifica. Niente di tutto questo nella implicita proposta di lettura dei fatti locali di Antonio Samaritani, lontana per altro al tempo stesso dalle ragioni contingenti, spesso magniloquenti ma vuote di motivazioni fondanti, soprattutto se sostenute da amministratori locali più attente ai giochi delle urne che alle necessità della cultura, sia dalla gabbia di acritiche accettazioni di quadri storici consacrati da tempo. Se Violante esprimeva a ben guardare un certo favore verso il pullulare di iniziative che, per così dire, supplivano, alle mancanze delle ricerca storica in ambito accademico, e se Andenna si dimostra incline ad un tipo di conoscenza storica che in realtà è metastorica, Samaritani ci propone per conto suo una visione della storia locale come fondata e fortemente condizionata non necessariamente dalle ragioni locali, geografiche, numeriche, demografiche, e così via, ma piuttosto come segnata da peculiari manifestazioni locali.
Non vale neppure osservare che la constatazione in certi casi dell'impossibile riferimento alla "grande" storia politico-istituzionale conduca poi a tutti i costi, forzatamente a recuperla attraverso la comparazione con altre, anche se divergenti, tendenze in atto altrove, colte qua e là, senza una solida base di omogeneità. Fatto è che bisogna finalmente convicersi che la storia si muove sì dall'alto verso il basso, dal centro alla periferia, ma anche in senso inverso, e con variabilissime velocità. Cominciamo dal giudizio universalmente accettato sulla crisi della metà del Trecento, proprio il tempo del nostro libro. Ebbene la stessa nozione di crisi è concetto suscettibile di valutazione esclusivamente in presenza di parametri il più possibile oggettivi; non è sicuramente agevole rilevarla sul piano dei valori, delle mentalità, delle credenze, delle sicurezze personali e collettive. Ma è categoria che si presta invece facilmente a paragoni, analogie, spesso suggerisce metafore attraenti, e tutto sommato è grandemente suggestiva. Basti pensare agli storici romantici, per finire con Huizinga, per misurarne l'enorme fortuna nella definizione degli ultimi secoli del Medioevo. Una simile impostazione permetteva di rappresentare quel giro di anni con i colori di morte, ma proprio per questa ragione accesissimi, dell'"autunno", e contemporaneamente consentiva di alludere, oltre l'ineluttabile disfacimento, il prossimo primaverile germoglio del Rinascimento. Si trattava di cogliere con un movimento di sintesi soprattutto una mentalità collettiva, una somma di comportamenti, ma con una scelta di strumenti estremamente ridotti, per cui il risultato di una tale visiione storiografica si concretava in osservazioni estremamente parziali, raccolte e rapportate vicendevolmente in maniera del tutto arbitraria, ma soprattutto trovava le sue ragioni prime nell'estetica, o nell'aneddotica, più che nella storia. Ma nemmeno nell'ambito della "crisi" una somma di illustrazioni, anche quando venga fatta in base ad un qualche criterio logico, risulta chiarificatrice, anzi direi che tutte le testimonianze, quelle relative alle diverse istituzioni come quelle letterarie ed artistiche, o quelle, più quotidiane, dei costumi o dei riti matrimoniali o funerari, tutte risultano perspicue solamente se si compie il tentativo di esattamente collocarle nel vario quadro degli schieramenti politici, sociali, culturali, là dove sia possibile, oltre che degli scontri tra gruppi, delle teorie teologiche, etiche e politiche, e delle tendenze economiche.
Allora il punto non è costituito dalla preoccupazione di svalutare l'insieme dei motivi della crisi della fine del Medioevo che ebbero un qualche rilievo nel modificare lo spirito dei contemporanei, i parametri certi di comportamento, le sicurezze in tema di fede, il loro immaginario della manifestazioni della vita e della morte: esattamente l'opposto. Si deve però guardare con sospetto ai tentativi di instaurare meccanici ed esterni rapporti di causa ed effetto, mentre si impone doverosa la ricerca a più dimensioni delle motivazioni, occasionali o di lungo periodo, mai comunque superficiali, dei mutamenti mentali. Infine sarebbe veramente il caso di smetterla con l'insistere sui luoghi comuni dell'età di transizione, allineando in tabelle contrapposte da un lato le "sopravvivenze" o i "crolli" e dall'altro le "forze nuove" che premono fino a trovare forma compiuta. Apro al proposito la solita parentesi locale: spero che il prossimo centenario boiardesco sia l'occasione giusta per togliere l'indecente lapide che celebra il conte di Scandiàno come - testuale - «precursore dell'Ariosto». E' veramente ora di finirla con queste idee; bisogna - per tornare a noi - valutare gli ultimi secoli del Medioevo per quel che furono, nella loro piena specificità, vale a dire per quel che rappresentarono di attuale, o, se vogliamo correre il rischio, di moderno. Ora il mezzo secolo ferrarese preso in esame da Samaritani è periodo generalmente povero di cultura. Proprio per questo - ne sono intimamente e profondamente convinto - è privo di movimenti ereticali; ma anche di moti popolari, né cittadini né campagnoli: così chi insiste col vedere dovunque un collegamento tra la protesta dettata dalla "crisi", rivolte contadine ed eresie si deve proprio rassegnare. Altra credenza corrente, fortemente in auge almeno fino ad una qualche decennio fa: seguendo soprattutto il Denifle una vera pletora di ricercatori ha allineato pagine su pagine calcando la mano sulla "desolazione delle chiese", epifenomeno delle calamità di quegli anni, che avrebbe segnato gran parte della seconda metà del secolo XIV e i primi anni del successivo, causando profondo smarrimento nella gran massa dei fedeli. Fortunatamente negli ultimi anni un gruppo di lavori ancora insufficientemente numerosi, ma ben documentati, ha suggerito una valutazione molto meno negativa, e comunque più articolata. A Ferrara nella fattispecie una disamina attenta delle strutture istituzionali ecclesiastiche (vescovato, plebati, parrocchie, chiericati), di carità (ospedali), della religiosità monastica e laica, non consente certo una simile conclusione. Anche qui il raccordo con la cosiddetta storia generale risulterebbe largamente difficile. Ed allora bisogna avere l'onestà e la coerenza di concludere che è il quadro sedimentato della storia generale ad essere in difetto; non che ci troviamo di fronte al solito fatto anomalo, all'eccezione che conferma la regola, e questo va detto anche di fronte all'inconfutabile constatazione che la natura delle fonti a disposizione è niente più che frammentaria.
Sembra invece nella norma il quadro generale relativo all'entità delle schiere ecclesiastiche ed alla media del loro comportamento. Se a proposito del forte squilibrio tra le necessità numeriche proclamate dalle norme conciliari e dal diritto canonico, ed effettivo inquadramento pastorale non c'è discussione fra gli studiosi, sembra ormai concorde tuttavia anche la convinzione che una vera e propria crisi nel reclutamento dei chierici non si verificasse mai. Per converso, almeno per quel che riguarda la città, e soprattutto per le chiese maggiori, pare che il clero fosse, se non sovrabbondante, comunque cospicuo. Se era nel complesso sufficiente, però, quel clero era mal distribuito fra città e campagna, e, in generale, era ad ogni grado mal reclutato e mal preparato.
I nostri vescovi del periodo non sono necessariamente modelli di cultura, ed ancor meno di dedizione pastorale. La residenza non è per nulla la norma, e quelli che risiedono si preoccupano al più di gestire al meglio la carica di cui erano investiti, salvaguardando rendite e prerogative. Generalmente trascurati del tutto gli obblighi più tipici di una pastorale episcopalr, quali visite delle parrocchie, cicli di predicazione, costante attenzione nell'amministrazione della cresima dei fanciulli, organizzazione di sinodi diocesani, sostegno ed alimentazione di una scuola cattedrale, controllo della formazione e del reclutamento dei sacerdoti. I canonici della cattedrale, per parte loro, la cui principale occupazione consisteva in genere nel perseguire "una quieta convivenza", per usare le parole di Samaritani, non erano certo in grado di potere efficacemente assistere i vescovi in quelle direzioni. Non si distingue alcun personaggio che abbia saputo o voluto veramente animare la vita della diocesi, andare oltre il livello della normale gestione, vivificare con l'incitamento e l'esempio un qualche movimento di più intensa spiritualità.
Il clero delle parrocchie, eminentemente in campagna, risultava quindi in larga misura abbandonato a se stesso. Spesso tale clero è stato posto sotto accusa, sia da parte dei moralisti dell'epoca, soprattutto predicatori, sia dagli storici di oggi. Tra le colpe che gli vengono correntemente attribuite prevalgono la mancata residenza, la scarsa dottrina ai limiti di una spaventosa ignoranza, e le non specchiate virtù pubbliche. Non si tratta di mettere in discussione queste colpe, piuttosto sarebbe necessario identificarne le responsabilità: come si sarebbe potuto pretendere una migliore preparazione dei sacerdoti quando per la maggior parte l'educazione ecclesiastica si riduceva ad un semplice più o meno lungo tirocinio accanto ad un sacerdote più anziano? Quando nessuna autorità nella diocesi operava perché le cose migliorassero, e quando era intrinseco, in senso più generale, al sistema beneficiale - che nessuno nemmeno pensava fosse da modificare - una somma di nefaste conseguenze? Infine sarebbe necessario riuscire a chiarire se, ed eventualmente in che misura, i fedeli fossero realmente scandalizzati di quelle che oggi giudichiamo pesanti manchevolezze; ma per la verità non disponiamo di alcun indizio per farci pensare in quel modo. Un parroco anche mediocre - ma forse proprio per questo maggiormente alla mano dei suoi fedeli - doveva fornire quell'assistenza primaria che ci si attendeva da lui, l'amministrazione dei sacramenti essenziali, una sigillo di vita ordinata e civile, insomma la gestione quotidiana e ordinaria di quell'elemento base dell'organica vita spirituale e sociale che era la sua parrocchia.
Rimane che il quadro si era venuto configurando in quel modo ormai da antica data, e che una più abbondante documentazione per anni più prossimi può solo far credere che si trattasse di novità, quando al contrario erano vive in realtà da lungo tempo. La caduta verticale della residenza, non esclusivamente ma anche parrocchiale, normale effetto della moltiplicazione sregolata e contemporanea dei benefici, un certo rimescolamento del clero, in modo consistente frammisto con forestieri, le cospisue transazioni relative alle prebende, anche quelle curate, che risultano permutate, anche concesse in commenda e perfino affittate, il nepotismo ed i legami familiari a più livelli, l'intesa tra vescovo e signori, tutto questo è frutto del mezzo secolo precedente. Anche quello che Samaritani chiama «un impressionante vuoto documentario» attorno alla metà del secolo sembra dover portare a quelle conclusioni. Ma nonostante tutto quanto detto sin qui sia indubitantemente vero, nella Ferrara della seconda metà del Trecento si avverte in generale una lenta tendenza alla riorganizzazione strutturale ed amministrativa, per lo più non guidata, direi dal basso. Ed in questo lento recupero Samaritani ha modo di notare che il mondo laico sembra al proposito più attento e vivace, tanto che egli può parlare di una - cito - «supplenza di spiritualità incertamente nuova». Gli obiettivi non sono chiari; ci si presenta spesso un volontarismo senza basi, ma comunque qualche cosa si fa.
Per quanto riguarda le chiese del forese il quadro economico che Samaritani riesce a delineare, con diverse manchevolezze per lo stato della documentazione, appare di lieve ridimensionamento, ma non certo di crollo. Per quanto pochissimo si possa dire della vita religiosa, e dell'attività culturale, pare di poter ipotizzare una sostanziale tenuta. Un coordinamento tutto sommato modesto, ma più che altro voluto da alcuni esponenti di famiglie più in vista, più che non dai vescovi, e tanto meno dai signori d'Este.
Per le parrocchie cittadine il calo sembra più evidente; ma qui il clero in qualche misura è più attento alla cura d'anime e dimostra una certa continuità di presenza. Così è riscontrabile una certa assiduità nella cura per le strutture e gli arredi delle chiese. Pochissime invece le cappelle private di nuova erezione, che fa pensare ad un certo scollamento generale.
D'altra parte erano venuti meno diversi quadri di riferimento. I vetusti e numerosi rivoli in cui si erano sparsi gli annosi ordini monastici avevano perso molto della loro importanza. Sicuramente alcune eminenti abbazie rimanevano comunque solide, e molti dei loro priorati soprattutto del contado, per quanto continuamente esposti a pericoli diversi, erano elemento imprescindibile del panorama comune. Se necessita di un ridimensionamento dei toni la tetra immagine così cara a certa storiografia di un monachesimo in dissoluzione, con la dimenticanza della regola e la trascuratezza della vita in comune, con il disastro dei beni secolari, con la rovina inarrestabile delle nuove leve, non è alcun dubbio che l'abito monacale non attraeva più come aveva fatto nei secoli centrali del Medioevo. I santi non venivano più dai chiostri; la vita monastica non sollecitava più alcun grande rinnovamento religioso; non c'erano più nuove Cluny o Cîteaux in grado di entusiasmare al pellegrinaggio od alla crociata. La Chartreuse da sola manteneva forte fascino, ma si trattava non a caso dell'ordine più appartato dal mondo, più refrattario ad ogni aspetto di incisiva azione pastorale che non fosse quella esercitata dall'esempio della condotta. Per quel che ci riguarda da vicino, i monasteri di S. Bartolo e di S. Giorgio attraversano forse il periodo di maggiore crisi della loro storia; solo verso la fine del secolo si coglie una quasi impercettibile ripresa generale; che risulta rilevante anche nell'istituto del conventus presbiterorum, il quale ha comunque una vita associativa stentata, in realtà perché quell'istituto non è più funzionale a garantire i parroci cittadini di fronte ai Mendicanti ed al capitolo.
Perché la questione fondamentale riguarda giusto gli ordini Mendicanti. Francesco, Domenico, e gli altri loro fondatori, via via i papi, avevano formato i frati come diretti intermediari della volontà pontificia, e quindi, come diretto corollario, di una riforma delle strutture di controllo e di intervento come di formazione delle coscienze. L'alto esempio che veniva dalla scelta volontaria della povertà originariamente, e successivamente l'elevato grado di formazione culturale e speculativa, avevano fatto dei Mendicanti le truppe scelte nella guerra contro gli eretici, ma anche un gruppo consistente da impegnare direttamente nell'azione pastorale. Ed ecco i Mendicanti predicatori, famosi e meno noti - molto più numerosi e più quotidianamente incisivi -, i confessori, i consolatori degli ammalati e dei moribondi, tutti coloro che insomma prestavano una assistenza vorremmo dire qualificata al cristiano nel momento del particolare bisogno, materiale e spirituale. Per quanto a lungo operanti tra ben evidenti contrasti con il clero secolare - a Ferrara basti pensare alla vicenda di Armanno Pungilupo - il loro successo era stato costante ed irresistibile prevalentemente in città per tutto il secolo precedente. Nel Trecento invece gli ordini Mendicanti dovettero far fronte a diverse difficoltà. In generale la regola originale subì diversi addolcimenti, ed in particolare la "disputa sulla povertà" presso i Francescani condusse a contrasti anche violenti ed a scissioni; si deve infine tener conto dell'ancora operante resistenza del clero secolare nei loro riguardi. Eppure le numerosissime "elezioni di sepoltura" presso le loro chiese testimonia come dovunque fossero privilegiati dai fedeli desiderosi di consolazione ed edificazione nel momento terribile della fine. Qualche studioso ha già sostenuto che in qualche caso i conventi cittadini degli ordini Mendicanti rappresentassero una specie di parrocchie alternative, in antitesi alle parrocchie secolari tradizionali: a Ferrara è il caso esplicito della parrocchia dei carmelitani di San Paolo. Così numerosi e tangibili buoni risultati garantiscono circa la positività del sistema e dei criteri d'azione pastorali dei Mendicanti, ma ugualmente non è possibile nascondersi che, anche tra i Mendicanti, erano ormai da tempo venute a mancare totalmente vere novità. Non sono certo le grandi tirate dei predicatori contro gli scandali, o le conclamate spiegazioni in chiave religiosa di immani catastrofi quelle che consentono di cogliere atteggiamenti religiosi concreti. Oltre il momento della passione, all'indignazione ed allo sconforto contingente, se ci si vuole avvicinare alla spiritualità corrente si deve scegliere un altro livello, quello delle reazioni quotidiane - o dell'assenza di reazione - proprio al succedersi di giorni più o meno identici gli uni agli altri, all'immutabilità delle istituzioni, al peso delle norme costanti quanto meccanicamente burocratiche.
Prendiamo ad esempio la consuetudine sacramentale, che ritroviamo ovunque praticata e concorde per quei sacramenti - battesimo, matrimonio, estrema unzione - che significavano un parallelo momento di transito nel corso dell'esistenza; se invece la confessione e relativa penitenza, ma soprattutto l'eucarestia risultano saltuariamente assunti, generalmente non molto al di là della norma minima stabilita dal quarto concilio Lateranense (almeno una volta l'anno, a Pasqua), non si deve concludere forzatamente per un sintomo di tiepidezza religiosa, quando potrebbe essere invece segno di eccesso di reverenza per un contatto troppo diretto con il mistero del trascendente. Tanto è vero che accanto bisogna mettere il diffondersi invece di forme diverse di devozione e di contatto col divino, meno cariche di sacralità e meno suscettibili di timori reverenziali, che pure ebbero la funzione di reali succedanei sacramentali. In modo del tutto particolare l'elemosina continua ad essere praticata forse più che precedentemente. Se la liturgia non ebbe arricchimenti di un qualche rilievo, pare di poter dire che non si impoverì; se da qualche accenno sembra di non poter dedurre una costanza nel soddisfacimento del precetto festivo, forse immiserito - pensiamo - da una predicazione corrente men che mediocre, i cristiani ferraresi insistevano con l'identificare alcune forme di preghiera e di devozione, ed anche qualche particolare cerimonia liturgica, nei mezzi privilegiati per un contato con il divino trascendente, dal quale comunque non si sentivano di poter prescindere. Numerose infine rimangono le ordinazioni di messe votive. In conclusione, non abbiamo alcun segno certo ed indiscutibile dell'affievolirsi costante e propagato della pratica religiosa.
Pare invece certo si debba registrare una incerta ricerca di nuove strutture religiose e sociali insieme. In direzioni a prima vista opposte, ma a ben guardare in definitiva complementari, si tendeva a ridurre la comunità cristiana ai suoi nuclei essenziali, l'individuo o la famiglia, dove si svolgeva la prima educazione religiosa di base, la prima iniziazione alla pratica dei sacramenti prncipali e delle devozioni quotidiane o periodiche (preghiere diverse, mortificazioni...). Oltre questo livello fondamentale, ma minimo, però - per altro difficilissimo da individuare in concreto -, accanto alla struttura parrocchiale, ribadita come fondamentale dai concili, i ferraresi dell'epoca come tanti loro contemporanei di tutta Europa cercarono nuovi organismi comunitari, e diedero vita ad altre e diverse strutture collegiali, più agili, meno numerose, e sostanzialmente più adatte a nuove esigenze di collegamento sociale, di attuazione e verifica di un vita religiosa più intensa e di individuale edificazione. Le congregazioni già vive da tempo, in particolare il terzo ordine di san Francesco o di san Domenico, attrassero alcuni; ma più numerose risultano le adesioni a confraternite, scholae, o ad altre forme di pie società. Gli statuti di queste associazioni, ricchi dell'elencazione degli doveri devozionali di cui dovevano dar prova gli aderenti, permettono di rendersi sufficientemente conto della cornice in cui si svolgeva la crescita cristiana in forme elette dei laici. Urbane, parrocchiali, professionali, di pura devozione, le confraternite ferraresi sono ben documentate. Sono strutture che svolgono evidentemente un compito anche sociale, di aggregazione, e politico di inquadramento, rimanendo comunque assoggettate alla sorveglianza più o meno flessibile della Chiesa in generale, e soprattutto alla guida delle élites laiche; ma principalmente basilare era la loro funzione più squisitamente religiosa, ben difficilmente distinguibile dalla precedente, tanto ne era intimamente compenetrata. Il coordinamento delle attività soprattutto caritative dei soci, i contatti periodici e l'identità consentita dal riconoscimento pubblico del gruppo al quale si apparteneva, tutto questo consentiva ad ogni aderente anche nei momenti difficili e cruciali della malattia e della morte, ed oltre la stessa morte nel viaggio periglioso del Purgatorio, quel tipo di solidarietà, ora tangibile, ora morale, ora mistica, che non si pensava di poter trovare nella società ecclesiale costituita dalla parrocchia, o nella famiglia, entrambe ritenute insufficienti al riguardo perché rivolte a compiti o troppo generici o troppo limitati. Mentre quello che nelle confraternite di estrazione popolare o borghese, muovendo dall'individuo e dalla famiglia, diveniva collettivo e di gruppo, con un movimento inverso tornava individuale o familiare per i più facoltosi, che preferivano l'erezione di una cappella privata, contemporaneamente mausoleo della famiglia, sito di preghiera e di quieta meditazione.
Accanto a simili strutture, per quanto relativamente mobili comunque istituzionalizzate e riconosciute pubblicamente, sorsero qua e là diversi altri esempi di pie comunità, variamente nuove ed informali, qualche volta confusamente marginali, in alcuni casi perfino sospette di eterodossia. Bastava un personaggio in odore di santità che raccogliesse intorno a sé dei devoti perché prendesse forma una specie di nuova congregazione - si ricordi la "famiglia" di Caterina da Siena, della quale lei si diceva la "mamma" -, che tuttavia in generale si dissolveva piuttosto rapidamente, a meno che non confluisse in una forma regolare convenzionale, come accadde spesso. E gruppi più o meno spontanei di laici devoti si incontrano un po' dappertutto: più o meno nella norma è l'esperienza di Beltramo de Rupta, variamente connessa con personaggi ed ambienti ferraresi, che si colloca però più all'inizio del secolo successivo. Ciclicamente riemergenti, ma tutto sommato maggiormente caratterizzati il Trecento, di grande presa sulle masse ma in definitiva di scarsa importanza, sono i flagellanti. Dalla Germania renana e dai Paesi Bassi in cui si manifestarono contemporaneamente alla Grande Peste nel 1349 si erano diffusi variamente in tutta Europa, e continuarono più volte ad apparire qua e là con il carattere prevalente di moti popolari spontanei. Non mancavano i predicatori improvvisati ed esaltati che gridavano alla penitenza, che, spesso proclamando spettacolarmente la negazione di ogni istituto ecclesiastico e dell'utilità dei sacramenti, gloriavano capacità taumaturgiche e fondavano su di una misteriosa "lettera caduta dal cielo" la giustificazione del loro comportamento, ed erano folle eccitate quelle che rispondevano agli inviti di replicare su di sé e gli altri le stesse prove terribili della passione di Cristo. I modi erano eccessivi, per non dire alle volte bizzarri, ma quel tipo di cristocentrismo violento si accordava tuttavia almeno relativamente con le recenti tendenze della devozione, tanto che la Chiesa, una volta condannati gli eccessi mistici, del resto estremamente limitati cronologicamente e spazialmente, cedette poi ad inglobarne alcune pratiche, addolcendole e proponendole a normali confraternite ortodossamente inquadrate. Nel settembre 1399 passano per Ferrara i Bianchi. Iacobo de Delayto ce ne ha lasciato nei suoi annali un resoconto preciso e a suo modo appassionato. Le folle di pellegrini, le cerimonie religiose che si tennero in città, tutto contribuì ad esercitare una fortissima emozione nei ferraresi. Anche il marchese con tutta la famiglia ed il seguito partecipa attivamente alle processioni, indossando la divisa dei battuti bianchi. Ma non ne nacque nulla, come già notava a suo tempo il Franceschini.
Il mondo degli ospedali risulta in trasformazione; i monasteri maschili risultano enti in sfacelo, e quelli femminili dimostrano - cito - «un andamento spirituale piuttosto basso». E per quanto riguarda, anche da questo misero lato, il gioco del potere, o solo delle influenze, delle lobbies, seppur minuscole, il mite ma non ingenuo Samaritani nota che sia la monacazione, sia l'acquisto di priorati ed abbazie avvenissero «con minori consapevolezze e intenzionalità di quanto oggi si creda», tanto a livello di famiglie quanto di comunità religiose; dove non si saprebbe se apprezzare di più il grande - ma raro - buon senso, e la nulla propensione alla drammatizzazione, o il mancato cedimento ai luoghi comuni.
Non trascurabili i casi di presbiteri indigenti, eppure qualcuno riesce a raggiungere qualche beneficio discretamente prestigioso fuori diocesi, si direbbero tuttavia casi sporadici.
La trasformazione più rilevante (ma con estrema cautela direi che forse è solo la più documentata) pare quella del capitolo della cattedrale. Avviene un notevole rimescolamento dei membri, divengono più numerosi gli esponenti di famiglie di rilievo, ma diverse dalle precedenti, così da dar luogo ad un nuovo equilibrio. A tal proposito Samaritani vede un significato emblematico nell'inventario che il capitolo sente la necessità di fare nel 1355. L'«ordinata e quieta convivenza» nel capitolo si accompagna ad una «lentissima ripresa delle parrocchie».
Quello che colpisce di più è la sostanziale estraneità dei mondi ecclesiastici, del vescovo e del capitolo della cattedrale, come quelli dei pievani e dei parroci; il conventus presbiterorum lontano sia dal vescovo come dal capitolo.
Degno di rilievo ancora che l'opera caritativa sollecitata dai Poveri di Cristo risulti - Samaritani dice per la sua "laicità", ma qui avrei preferito fosse meno ellittico - più attraente, riscuota maggiore fiducia dei Mendicanti e del vescovo. Del resto è abbastanza ricco il quadro relativo all'Officio dei poveri di Cristo ed in generale sulla povertà, ma poco suscettibile di semplificazioni. L'unica su cui si può concedere con tranquillità è che il raccordo con la figura del vescovo si fa sempre più stretto.
Per quanto attiene ai rapporti tra comune e chiesa, si deve premettere che le professioni di fede nella Trinità, l'ostentato omaggio alla Vergine ed ai santi, l'insistito rispetto alla reverenza divina, con cui normalmente cominciano gli statuti, sia comunali sia delle arti, fossero un fatto puramente formale, ripetitivo di consolidate tradizioni notarili; non è sicuramente formale che gli statuti di cui diciamo siano reali e gravi strumenti per il controllo dell'ortodossia, ed al fine di omogeneizzazione della pratica devozionale quotidiana. Senza distinzione gli statuti cittadini e rurali, delle comfraternite e delle arti, rendono disponibile un insieme veramente notevole di esempi al proposito, dalle proibizioni di precisi comportamenti che si pensavano lesivi dell'ordine ortodosso vigente, con relative pene, al vincolo dell'obbedienza ad una serie definita di devozioni. L'eresia vi si trova allineata accanto all'omicidio, alla rapina, al furto ed alla sodomia. Chi bestemmia Dio, la Vergine e i Santi a Ferrara è condannato alla multa di 25 lire; se la somma non viene pagata è prevista l'amputazione della lingua. Gli ebrei non possono uscire di casa il venerdì santo, pena 10 lire di multa. L'insieme della normativa consente di recuperare una lunga teoria di atteggiamenti, rituali quotidiani, modi di vita relativi al "pervertimento" in Italia dei costumi, documenti non tanto reali, come si dovrebbe automaticamente desumere, e come parallelamente vogliono far credere le indignate prediche popolari di tanti, da Giordano da Rivoalto al Savonarola, quando oramai è accertato che tra stili di vita comuni e normativa relativa si andava in quegli anni approfondendo un solco d'incomprensione, quanto invece allusivi ad un modello di accettazione pubblica e di riverenza che si volevano vigenti nei riguardi dell'istituzione ecclesiastica ed alle sue disposizioni.
Vengono poi una lunga serie di risposte a più o meno piccole domande, quali, ad esempio, se sia aumentato o no il numero delle messe di suffragio, quando si predica in duomo, quando si tengono processioni, i giorni in cui si pongono le reliquie sull'altare e quelli in cui si mette la croce. Il quadro generale piuttosto piatto riceve un'altra pennellata di grigio dalla constatazione che non si registra alcun nuovo culto. Nessuna notizia - a conferma di quel che dicevamo più sopra - circa eresie, magie usure e folklore religioso. A testimoniare del profondo cambiamento in atto si consideri che abbiamo notizia solo di due casi di scomunica: i colpiti dal'atto sono un orefice ed uno speziale cittadini; ma il solo provvedimento che pare si prendesse nei loro confronti consisteva nella pubblica proclamazione nelle messe festive - ma solo nelle "maggiori" - da parte dei vari rettori delle chiese cittadine. Li si doveva trattare alla stregua di eretici, evitandoli accuratamente: il tempo di Armanno Pungilupo è veramente lontano.
Anche testamenti e pellegrinaggi sembrano a conti fatti testimoni piuttosto modesti di spiritualità.
E veniamo all'Università. Bologna, Parigi, Oxford, e le altre grandi università del secolo XIII, con le poche che vi si erano via via aggiunte, ed in particolare nel loro seno le facoltà di arti e teologia, continuavano a rappresentare i maggiori centri della vita dell'intelletto, anche se programmi, metodi ed obiettivi ormai si ripetessero stancamente dovunque. Ognuna di quelle grandi università continuava ad attrarre studenti a migliaia da ogni regione d'Europa. Frequentarle conferiva un prestigio che persisteva intatto, insegnarvi era una patente di pubblico riconoscimento di valore. Gli enti più diversi, laici ed ecclesiastici, riservavano loro un particolare e più alto magistero, ed una autorità immensa, tale da far inorgoglire i professori. I quali ultimi cominciarono così a coltivare grandi ambizioni personali e di gruppo, in particolare in ambito giuridico e della teoria politica, visto che la loro opinione venne riconosciuta come fonte del diritto. L'attenzione al presente e la precisa responsabilità politica dei dottori che così si moltiplicava era uno degli aspetti maggiormente positivi dell'evoluzione di un ceto che, per molti altri aspetto, era pervicacemente conservatore. L'ideale degli universitari infatti si riduceva a vagheggiare una nuova armonia di ordine sociale e politico, fondata sui principi insieme del diritto e della provvidenzialità divina, che per loro mezzo si sarebbe potuto raggiungere. Ma parallelamente si evidenziano aspetti negativi: anche il mestiere dell'universitario, come tutti gli altri mestieri, si avvia rapidamente all'ereditarietà; se i laici hanno alla lunga la meglio sui religiosi su un piano fondamentale, quello della retribuzione - i signori li pagano, o provvedono a che li si paghi, e la loro rimunerazione, specie quella dei giuristi è molto elevata - quel che ne deriva è nefasto, su due piani: mentre abdicano interamente all'indipendenza del giudizio e dell'espressione, perdono la libertà della scelta, poiché scelgono immancabilmente l'ordine vigente. Comunque le cose erano cambiate, nonostante l'intatto prestigio di cui si diceva, dai tempi di san Tommaso d'Aquino: per tutta la durata dei secoli XIV e XV furono create, un po'dovunque in Europa, più di quaranta università, nuove e quasi sempre - come la nostra - sorte per volere dei principi; per la verità il fenomeno trova la sua spiegazione migliore proprio con il rafforzamento delle strutture degli stati nazionali da una parte e dei principati territoriali dall'altra. Le neonate università, che oggettivamente infrangevano il monopolio culturale delle antiche, si assunsero però il compito estremamente ridotto di formare giuristi competenti per le necessità locali, risultando loro del tutto estranea l'aspirazione ad una qualsiasi novità intellettuale, ma i luoghi dove si elaborava la cultura superiore dalla seconda metà del Trecento alla metà del Quattrocento si moltiplicarono, e più numerosi si fecero studenti e professori d'Europa. Non è dubbio che le novità erano complessivamente modeste, visto che si trattava frequentemente degli stessi personaggi che si portavano da un centro all'altro, ed indiscutibilmente il peso delle tradizioni universitarie rimaneva vivissimo; eppure si trattava di situazioni diverse, teoricamente più passibili di recepire e sollecitare nuove arditezze di pensiero e di studio, come maggiormente esposte - va detto - ai più o meno pesanti condizionamenti dei signori. Sottolinea nel nostro caso Samaritani, ed opportunamente, la concomitanza, ed il parallelo accordo tra gli interpreti della Bonifaciana ed i primi maestri dello Studio, e soprattutto il nesso stretto tra rinnovo del vicariato agli Estensi, bolla per l'Università e Bonifaciana.
Ma oltre questo il mondo culturale ferrarese è men che modesto, tanto che Samaritani non ha potuto avvalersi in questo studio di fonti cronachistiche e generalmente letterarie; tanto che la fondazione dello Studio - di regola comunque marginale nell'edificazione dei fedeli e nella formazione dei chierici - sembra rispondere ad esigenze incrociate di vescovo e signori, senza retroterra solido, senza vere prospettive, senza materiali vivi. Si tratta di un aborto, insomma. La nascita vera va posticipata, come tutti sanno.
Se - concludendo - senza ulteriori approfondimenti si rischia, come ha efficacemente sintetizzato a proposito della sua disciplina Ranieri Varese, di «perdere il senso del contesto», per ora, grazie a Samaritani ed alla Deputazione, del contesto sappiamo notevolmente di più.
Grazie.