Giacomo Todeschini La ricchezza degli ebrei. Merci e denaro nella riflessione ebraica e nella definizione cristiana dell'usura alla fine del Medioevo, Spoleto, Centro italiano di studi sull'alto medioevo 1989 (Biblioteca degli "Studi medievali" XV) pp. 200
Questo è un libro sui confini. Nei giorni dell'abbattimento metaforico del muro di Berlino, quando tutti siamo frastornati da un misto di timore nell'accertare la nostra incapacità a prevedere, e di gioia nel vedere crollare un diaframma durato quasi mezzo secolo, l'A. ci ricorda con durezza che nei secoli del Medio Evo un muro ben più solido divise cattolici ed Ebrei.
Con tanta durezza, recisione ed abbondanza di argomentazione da renderci incomprensibile il "miracolo" di una coesistenza, che pure inequivocabilmente si verificò. Nei giorni in cui apprendiamo da Le Monde che oggi l'80% dei confini politici tra stato e stato è oggetto di discussione, quando il pontefice sostiene l'innaturalità di tante divisioni "nazionali", quando si riparla della riunificazione delle due Germanie, si ridiscute il nome del Partito Comunista Italiano, si parla di una integrazione del Mercato Comune Europeo con paesi del Patto di Varsavia, l'A. ci ricorda la profonda incomunicabilità che regnò in passato tra Ebrei e non-Ebrei. Ci parla di una porta stretta, un pertugio, spesso sprangato - e non da una parte sola! - che quando veniva attraversato, dall'uno o dall'altro degli appartenenti ad uno schieramento, aveva valenze diverse quando non opposte. Ci dice che quando un ebreo prestava denaro ad un cristiano lo faceva seguendo una sua logica economico-religiosa, ed il cristiano riceveva il prestito obbedendo ad un'altra sua logica, diversa, opposta a quell'altra. Convincente o no che sia la proposta interpretativa, che dovrà comunque essere discussa, essa si presenta nella sua globalità - non nei singoli passaggi, di per sè spesso già acclarati - con una forte, emozionante originalità.
Il primo capitolo è costituito da una puntuale, profonda analisi di storia della storiografia sulla "questione ebraica" in generale, nel Medioevo in particolare. Adoperando lavori di disparata origine ed orientamento, dai contributi di carattere sociologico a quelli più specificatamente economici, dalle rassegne puramente bibliografiche alla esemplificazione di casistiche geografiche e cronologiche, dalle testimonianze squisitamente letterarie a quelle filosofiche, l'A. individua quello che in modo solo paradossalmente stupefacente si potrebbe dire l'aporia storiografica rappresentata dalla storia non dico del contributo ebraico allo sviluppo della società, ma addirittura del suo senso esistenziale. In un breve saggio dedicato ormai un decennio fa al problema ereticale nel basso Medioevo constatavo come in definitiva la storiografia avesse sempre considerato l'eretico come esclusivamente funzionale alla società cristiana ortodossa, come - scrivevo allora - se l'eretico per se non esistesse, ma venisse creato volta a volta a fini specifici dalla dirigenza religiosa e politica; e questo mi sembrava - e mi sembra ancor oggi e più - francamente un po' troppo. Analogamente qui si constata - per dirla con le parole di Sartre opportunamente ricordate dall'A. - che "non è esagerato sostenere che sono stati i cristiani a creare l'ebreo". Sono evidenti a questo punto gli squilibri interpretativi di qualunque questione riguardante il nesso ebrei-società in cui essi operano.
Con l'aggravante che la consapevolezza di questa insoddisfacente impostazione del tema in passato è pura stata posta, sia nell'ambito degli studiosi di parte ebraica sia (meno) in quello di parte cristiana. Ma sta di fatto che "almeno a livello di sistemazione ufficiale e istituzionale" l'ebreo è colui che più o meno si integra nella società cristiana, oppure più o meno violentemente ne viene escluso.
Con un passaggio che a me francamente sembra eccessivamente brusco - ma siamo ancora a livello di constatazione - l'A. allora ricorda che la funzionalità ebraica nel Medioevo al progresso - senza alcuna connotazione - della società è stata ridotta a partire dalla storiografia tedesca sul finire dell'Ottocento alla valutazione dell'apporto ebraico all'economia cristiana, valutazione variamente espressa, ma sostanzialmente ruotante attorno all'attività stabilita come principe dell'ebreo medievale: la pratica usuraria. Ma segni inequivocabili di mutamento di prospettiva si riscontrano in diversi studiosi a partire dalla fine dell'ultima guerra mondiale: una rifondazione della storiografia sulla valenza della vicenda (delle vicende) ebraiche nel Medioevo - centrata questa volta sulla centralità e peculiarità dell'esperienza ebraica - sembra oggi possibile.
Così il secondo capitolo, "Ebrei ed economia: l'usura", è in realtà costituito da un approfondimento del primo, giusto sui temi economici. In generale - tanto che la parola "usura" vi compare solo due volte nell'ultima pagina, e del tutto cursoriamente - per ribadire come sia oggi possibile, forti di più o meno recenti acquisizioni, rinnovare il discorso su concezioni e pratica economica ebraica, dalla pura specola del contributo ebraico alla storia della civiltà (economica).
Essenziale quindi il capitolo successivo, dedicato ad illustrare le peculiarità della "logica" del pensiero ebraico in tema di economia in generale, di denaro, merce e transazione, fondato sull'analisi della fonte primaria, il Talmud, che si contrappone così per l'A. alla "logica" scolastica sugli stessi temi. La ricostruzione è - a detta dello stesso A. - faticosa, stante il carattere estremamente frammentato dei testi, orientato a classificare una casistica, mai a stabilire principi teorici generali. Ne viene una identificazione piuttosto netta soprattutto a proposito del valore da attribuire al concetto di moneta, misura in qualche modo oggettiva - ma sostanzialmente astratta - nella trattatistica cristiana del valore - ugualmente oggettivo - di una certa merce in un certo ambito, valore del tutto relativo in ambito ebraico a seconda delle modalità con le quali avviene l'appropriarsi di un certo bene, del bene stesso, delle circostanze, necessitanti o no, che rendono possibile l'accesso alla proprietà od all'usufrutto del bene. Nella concezione talmudica, in particolare per quanto riguarda il prestito, il denaro monetato è "ente concreto, merce metallica scambiabile con profitto per merce immediatamente utile; questa visione del circuito economico non sottrae al denaro alcun potere di capitalizzazione, né al tempo commerciale un valore, ma stabilisce per entrambi una relazione alla merce come prodotto naturale e concretizzazione del lavoro umano".
Seguono due sezioni sul pensiero di Maimonide tese a giustificare un progressivo infittirsi e precisarsi di una "codificazione giuridica tipica degli Ebrei occidentali", particolarmente in materia economica. L'A. ritiene probante questa parte della trattazione per "la diffusione che i testi maimonidei conobbero nel basso Medioevo"; ma qui ci rimangono dei forti dubbi, perché è notorio che la diffusione manoscritta di un testo non rende quasi mai automatica l'assunzione in profondo dei contenuti di quel testo: ben altre prove occorrerebbero.
Le perplessità aumentano con i capitoli conclusivi del libro: prima un riassunto organico dei concetti economici elaborati da parte cristiana, significativamente connotati come "economia antiebraica", quasi che l'obiettivo polemico ne fosse la ragione prima (ha il sapore di uno sberleffo leggere oggi nella biografia di Franco Cardini che Francesco forse era d'origine ebraica...); infine - vero apice del libro - un'analisi del "conflitto" tra Ebrei e Francescani "come verifica di un modello economico". Da una parte "la possibilità di usare del denaro come di una merce particolare, esistente nella giurisdizione ebraica, e determinante il livello di interesse in quanto divieto di commercializzazione la moneta pensata come ente astratto, conduce la ricchezza ebraica sulla via del mutuo ipotecario o su pegno (shibud nekhassim) nella prospettiva di una riduzione a deposito/compravendita del prestito"; dall'altra "nella dottrina canonistica e scolastica la elaborazione di un'ipotesi monetaria fondata sui concetti di sterilità ed equivalenza". E tutto quello che viene detto in appoggio ed esemplificazione non è certo "un gioco di parole, ma la distinzione precisa fra due economie", fra due culture aggiungeremmo noi. Di più: distinzione che diventa persecuzione:"La polemica sull'usura degli Ebrei... significa non soltanto persecuzione, ma anche affioramento alla coscienza intellettuale cristiana di una specificità economica e giuridica ebraica, la non evitabilità del riconoscimento e del confronto; l'irritazione della maggioranza di fronte allo spessore testuale, ed economico in particolare (politico, quindi), incarnato dalla minoranza". Ma si badi che tutto questo si fonda da un lato su di una letteratura ricchissima ed articolata, dal Decretum agli ultimi epigoni bernardiniani, dall'altra sul solo Maimonide! Operazione lecita? Ne dubitiamo (analoghe obiezioni vorremmo fare a proposito di Roberto Bonfil Esiste una storiografia ebraica medioevale?, in Atti del congresso tenuto a S. Miniato, 7-10 novembre 1983, Roma, Carucci 1987 (Associazione italiana per lo studio del Giudaismo. Testi e studi) 227-47). Che l'elaborazione talmudica si opponga all'elaborazione scolastica non ci convince molto; che Maimonide possa fronteggiare da solo la letteratura francescana in materia economica ancora meno. Non è solo questione di quantità - oltre alla sfasatura cronologica, che pure ha un suo peso, e che non si può banalizzare dicendo semplicemente che l'una precede l'altra (cosa che certo lA. non fa, perché per lui lantecedenza ha invece valore probante). Non c'è nulla di parte ebraica che risponda in qualche modo alla polemica, se non sul piano del "fare" di tutti i giorni. Sono questioni di metodo e non di merito? Non sapremmo dire. La parola agli specialisti.
Con tutto questo non si può non restare ammirati della "lezione" di questo libro: quanto è doveroso, stimolante, problematicamente fecondo dedicare - come diceva Einstein - almeno mezz'ora al giorno a pensare in maniera opposta a quella dei tuoi colleghi.
Se parlando degli eretici io dicevo di un "insignificante fortemente reattivo", Todeschini ci parla di una "minoranza attiva": eccome! Al punto di essere un motore della grande storia.
Gabriele Zanella
Ricevuto il testo della recensione, Giacomo Todeschini mi ha scritto una lettera che, con il consenso dellautore, trascrivo qui, sfrondata dei passi più "personali". Ne rimane comunque un forte tono "non-ufficiale" che spero non urti la sensibilità di nessuno.
"Trieste 16 gennaio 1990
Caro Gabriele ti sono grato per aver colto lo spirito di contrapposizione che mi anima nonché la rabbia che provo nei confronti della storiografia appiattente e normalizzante; non cè dubbio che leretico come lebreo - non a caso - sono stati e soprattutto in Italia visti spesso come la cartina di tornasole della centralità cristiana e cattolica. Lultimo bellesempio (persino paradossale) è quello offerto dalla Storia notturna del Ginzburg, di cui ho detto qualcosa in una "discussione" che dovrebbe apparire fra poco su "Studi Medievali".
Qualche puntualizzazione e risposta alle tue fin troppo centrate osservazioni, o, meglio, qualche tremebonda autogiustificazione:
1) Sartre lho citato come prototipo involontario di un atteggiamento maggioritario e storiografico che fa dellebreo uninvenzione cristiana. Ma, che sia lantisemita a fare lebreo è un po come dire che quando ti danno uno schiaffo ti mettono al mondo.
2) Hai perfettamente ragione, ho glissato con troppa allegria sul basso Medioevo ebraico: in realtà esistono moltissimi testi che portano avanti lanalisi talmudica e maimonidea: responsa ossia delibere giuridiche dei rabbini francesi, tedeschi, italiani due-quattrocenteschi, trattati e commentari dello stesso periodo sino allo Shulchan Aruch di Joseph Caro che è già del XVI secolo (da approfondire sarebbero gli scritti normativi di Joseph Colon, italiano attivo come capo-scuola rabbinico nel Quattrocento (di origine francese).
3) Hai comunque ragione: la contrapposizione è troppo secca. Ma quel che volevo dire era che è assurdo parlare di una economia, di una concezione dei fatti economici alla fine dfel Medioevo. Troppe eredità, troppo centri del moto, troppe lingue culturali e scientifiche fanno anche del territorio economico (o etico-economico, crematistico, economico-politico, o come ti pare) una torre di Babele. Razionalizzarlo allinsegna del crescere progressivo della ricchezza delle Nazioni è troppo facile e comodo, oltre ad essere la porta sbattuta in faccia a chi portava con sé un modo di vita che poi è stato battuto, eliminato o in ogni caso ridotto al silenzio.
Giacomo"