Giorgio Cencetti Lo Studio di Bologna Aspetti Momenti e Problemi - 1970) A cura di Roberto Ferrara - Gianfranco Orlandelli - Augusto Vasina, Bologna, CLUEB 1989 (Università degli Studi di Bologna - Dipartimento di Paleografia e Medievistica), pp. X-416

Utilissimo volume, che rende disponibile per lo studioso l'intero corpus degli scritti di Giorgio Cencetti sullo Studio bolognese. Non poteva mancare, nella pletora delle pubblicazioni originate dal fittizio nono centenario, l'occasione di rimeditare la lezione del più rappresentativo studioso di ieri degli "aspetti momenti e problemi" dell'università bolognese. L'accento posto nella presentazione del libro da parte dei curatori alla "grande vitalità ed attualità, soprattutto sotto il profilo metodologico e critico" di quegli studi è certamente indiscutibile, anche se ogni volta che si sottolinea più il valore metodologico sia inevitabile una certa reazione di fastidio, col relativo sospetto che ci si trovi di fronte ad un necrologio più che ad una riflessione squisitamente scientifica. Ma ci sia consentito qui dire che nel libro è qualche cosa di più di una trascelta di "aspetti". Oltre l'ovvia restituzione di una temperie culturale - che ci pare ben poco "attuale", seppure indubbiamente interessante -, la raccolta di questi lavori consente - ed obbliga - ad una verifica di certe proposizioni, indicazioni di indagini da fare, enucleazione di argomenti da analizzare, sulla base di quanto dopo il C. è stato fatto, e non è stato fatto. Non ci pare lecito guardare a queste pagine come ad una testimonianza - rilevantissima - di un lavoro svolto, concluso con la morte del suo autore, senza tentare - giusto per riaffermarne il valore "attuale" e "critico" - di chiarirne il ruolo scientifico oggi, tralasciando ovviamente il valore che poteva avere ieri, e cercare di definire la considerazione che lo studioso della scuola, della cultura e delle istituzioni culturali deve averne.

Il tema delle origini è sicuramente quello più affascinante, ed affascinò infatti anche C., in più occasioni. I suoi studi in merito - Il pensiero medioevale e lo Studio di Bologna (1943), Sulle origini dello Studio di Bologna (1940), Studium fuit Bononie (1966) - sono allineati qui non in ordine cronologico di apparizione, ma direi in un crescendo di peso quantitativo (pp. 3-15, senza note; 17-27, con note; 29-73 con solo tre note finali, ma con richiami di indicazioni bibliografiche ragionate e fitte nel testo), e scientifico (da "L’Archiginnasio", "Rivista storica italiana", "Studi medievali"). L’inquadramento nell’ambito del "pensiero medioevale" è tutto sommato piuttosto generico e sa di scritto d'occasione, ma sempre alquanto personale ed acuto soprattutto là dove indica nella "concretezza" la cifra distintiva della neonata scuola giuridica bolognese, il vero solco tra quello che era stato prima, il "mondo della fantasia", lo "spirito estetico", e quello che sarà dopo, il mondo del "pensiero" e dello spirito "scientifico" (pp. 6-7), tra una scienza giuridica di enti diversi orientata a risolvere il particolare, al diritto concepito come scienza della legge emanante da un'unica fonte ed orientata a tutto inglobare. Ma risulta un qualche cosa di meccanico e sostanzialmente fuorviante identificare la ragione di questa tendenza nella "stabilità costituzionale del Regnum" e non tanto perché quella stabilità sia solo presunta (C. vi fa cenno di passaggio), quanto perché lega necessariamente l'una all'altra.

Anzi proprio il caso bolognese dimostra che nel maggior momento di incertezza dei ruoli (a Bologna non siamo neppure certi del nome dei vescovi dell'una e dell'altra parte!) la riscoperta del diritto romano celebra non quella dipendenza, ma il suo esatto contrario, o se si vuole una dipendenza rovesciata. E C. in fondo ben lo sapeva, perché poi parla di idea "inespressa, forse confusa e indistinta" che deve trovare in Irnerio "l'uomo di genio che saprà dare espressione concreta anche nella giurisprudenza alle aspirazioni medioevali verso l'universale" (pp. 10-11).

Sull’"unum necesse esse ius, cum unum sit imperium" C. enfatizza non poco (inevitabile il rimando a Dante, "con quasi duecent'anni di anticipo su una famosa terzina dantesca", pen poco perspicuo in tale contesto), ma ancora una volta deriva da un accostamento meccanico e forzato: "onde non è meraviglia se la nascente scuola bolognese ricevé anche il formale crisma di una auctoritas imperiale per mano della viceregina Matilde, i cui giudici erano rimasti sordi alle leggi romane finché potevano continuare a pensarle come personali o semplicemente supplettive, e non è meraviglia nemmeno se nel volgere di brevissimi anni le genti dell'Occidente sentirono che un altro splendidissimo faro della cultura medioevale si era acceso per indicare la rotta alle picciolette barche senza pilota nel mare della dottrina" (p. 12). Ma poi ci trova del tutto consenzienti il rilievo che il risultato, sul piano della mentalità, "si risolveva in acquisto di concetti giuridici categorici e perciò universali, quando cioè più che la singola legge o costituzione gli scolari finivano per imparare e far proprio il pensiero giuridico" (p. 13). Questa è la vera novità, che giusto contraddice le precedenti concatenazioni storicistiche: "In Italia, al contrario che altrove, dalle antiche scuole alle università medioevali c'è una frattura incolmabile, che non lascia alcuna possibilità d'intendere queste come continuazione neppur materiale di quelle: le vecchie scuole, quasi esclusivamente vescovili e cenobiali, o muoiono o continuano come prima vita non diversa dalla morte o infine si trasformano in preparatorie agli insegnamenti superiori: la vera vita dello spirito scientifico è tutta nei nuovi istituti, estranei all'ordinamento ecclesiastico, che alla Chiesa fanno capo solo in quanto il pontefice, alla pari dell'imperatore, è rappresentante di quell'unica volontà trascendente che con un'unica legge dà norma all'universo" (ibid.). E in che consiste poi la specificità dell'istituto, del "modello" bolognese? Qui C. si distaccava nettamente dagli studiosi che lo avevano preceduto: "Piuttosto riconosceremo l'ambiente, il terreno, per così dire, nel quale la scuola di diritto è nata e si è sviluppata, in una scuola notarile, che se pure non ha avuto enorme importanza, è certamente esistita in Bologna nel secolo XI..." (p. 18). Senza dimenticare, naturalmente la "petitio" di Matilde, con il recupero delle testimonianze da Riccobaldo a Bartolo al Sigonio sulla fondazione "imperiale" dello studio. Avvalorata dalla contrapposizione operata da Odofredo di Irnerio a Pepone, che "coepit auctoritate sua legere in legibus" (p. 19). Allora la domanda, ancora oggi senza precisa risposta, è dunque: "Può tutto questo suggerire l'idea che a Bologna sia esistita una scuola notarile, la quale avrebbe preceduto di poco o accompagnato ai suoi inizi quella di diritto?" (p. 45). Dalla scuola notarile alla scuola di diritto, e, dopo una serrata analisi della Habita, dalle scuole di diritto alle societates : "le societates devono ormai essere considerate come la prima organizzazione dell'insegnamento superiore in Italia, e questa constatazione ha notevole importanza per la storia delle origini dell’Università come istituzione" (p. 57), non molto diversamente, insomma da come aveva pensato il Carducci (p. 58). Sull'origine "prevalentemente, e forse interamente laica" (p. 81) comunque nessun dubbio, anche nei saggi raccolti nella seconda sezione, "Aspetti e momenti di vita dello studio" - La laurea nelle università medioevali (1943), dagli "Studi e Memorie per la storia dell'Università di Bologna", pp. 77-93; Il foro degli scolari negli studi medievali italiani (1940), dagli "Atti e Memorie della Deputazione di Storia patria per l'Emilia e Romagna", pp. 95-112; L’università di Bologna ai tempi di Accursio (1968), dagli "Atti del Convegno internazionale di Studi Accursiani", pp. 113-24; Il contratto di enfiteusi nella dottrina dei glossatori e dei commentatori (1939), dagli "Annali della Società Agraria di Bologna", pp. 125-208.

Pepone e Irnerio sono iudices, il ruolo di Matilde, di Enrico V e di Federico I ne sono l'inequivocabile segno. Oggi però noi abbiamo molte minori sicurezze. Per quanto molto si sia studiato la scuola notarile bolognese non si è rivelata affatto quella scuola alla sensibilità per il diritto ipotizzata da C., anzi recentissime ricerche di Giampaolo Ropa ce la presentano per lo più come scuola di indotti, prigionieri di formule (non di un formulario!) tanto fossilizzate quanto lontane da suggerire meditazioni nuove ed attente: "il passo dalle tecniche meramente professionali alla Scientia iuris legata al riscoperto diritto romano appare molto lungo" (G. Ropa Culture letterarie urbane dell’Italia altomedievale "Annuario dell’Università degli studi della Basilicata / Potenza" 1985/1986 p. 258). Che Pepone fosse stato vescovo seppure scismatico è stato ipotizzato con buoni argomenti da Piero Fiorelli (Clarum Bononiensium lumen, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Roma 1978), diversamente affiancato da Gabriele Zanella (Pepo: addenda minima, in "History of Universities" 2 (1982), pp. 217-24) e Carlo Dolcini (Velut aurora surgente. Pepo, il vescovo Pietro e l'origine dello Studium bolognese, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo 1987 (Studi storici 180)). Che il massimo monumento della cultura bolognese sia il codice Angelica A. 123 è ormai certo; il ruolo della cultura ecclesiastica non è affatto fuori causa; che Pepone avesse non solo la capacità e la volontà, ma anche il diritto di insegnare si potrebbe ugualmente sostenere, e non si è mai notato, mi diceva, con lodevolissimo ma raro buon senso in amabili conversazioni Giampaolo Ropa, che se Pepone cominciò a insegnare, ci doveva anche essere un uditorio disposto a ricevere quell'insegnamento (ed ora lo si può leggere: G. Ropa La cultura ecclesiastica bolognese nell’XI-XII secolo e lo Studio universitario "Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia" Università degli studi della Basilicata - Potenza 1987-89 [1990], p. 150), ed un uditorio con un minimo di preparazione non nasce dal nulla. La chiusura del C. riposava su argomenti per lui validissimi, per noi quasi inconsistenti: "il diploma di Lamberto parla di canonici intenti agli studi ma non di scuola; e, di più, nei circa settecento documenti bolognesi superstiti dal 922 al 1100, da noi accuratamente consultati uno per uno, non c'è traccia né di scuole né d'insegnamenti né di maestri" (p. 114). Ma il diploma è per molti versi unico, e per quanto riguarda la documentazione citata ci sarebbe da meravigliarsi del contrario: perché mai ne avrebbe dovuto parlare, osserva a ragione Ropa (La cultura… p. 148)? Al contrario le testimonianze più sollecitanti vengono da resoconti di tipo cronistico, come ho già rilevato altrove.

Il lavoro di C. sulla laurea è ancora per molti versi insuperato: da cooptazione a concessione papale (p. 83) a concessione regale (p. 86), ma sempre rilevante fino a divenire preponderante fu l'autorità dei professori (pp. 86-87), fino a che il titolo ebbe valore quasi esclusivamente professionale dopo il XV secolo (pp. 88-89). Anche sotto questo aspetto si ribadisce il valore di diverso ma universale "modello" delle università di Bologna e Parigi.

Modello che è piu facilmente riscontrabile nella elaborazione degli statuti, soprattutto nei primi; poi le necessità locali fecero sì che da sede a sede le differenziazioni si evidenziassero. Grande è per questo aspetto la capacità di C. di cogliere il nesso strettissimo tra la vita dello studio e società civile, tra evoluzione di un istituto giuridico e storia politica, cui arrivava da un forte richiamo idealistico: "E' la storia politica, quindi, a darci la spiegazione della nascita e dell'evoluzione di un istituto squisitamente giuridico nel suo contenuto e nella sua applicazione, quella storia che è formata da correnti di vita e d'idee, di pensiero che è azione, di azione che è pensiero" (p. 103).

Proprio su questa base possiamo oggi usufruire di lavori di più ampio respiro, e con notevoli progressi di informazione, per ricordare solo pochi nomi faremo quelli di Rossi, Vasina, Pini; da ultimo per una questione particolare ma di non breve momento Lorenzo Paolini è giunto di recente (L’evoluzione di una funzione ecclesiastica: l’arcidiacono e lo Studio a Bologna nel XIII secolo, in "Studi medievali" 29, 1 (1988) pp. 1-44) a correggere la convinzione del C. che l'arcidiacono esercitasse una specie di presidenza delle commissioni di laurea al posto del vescovo; in realtà la conflittualità fu piuttosto lunga ed accesa. Rivaluta invece Paolini quella che definisce una intuizione del C.: "si potrebbe pensare che alla cerimonia di graduazione assistesse anche l'altro giudice speciale degli scolari, il vescovo, e in tal caso i dottori avrebbero funzionato come assessori o come delegati" (ibid. p. 21 nota n. 47).

Ineliminabile è ancora il lavoro sull’università ai tempi d'Accursio: forte di una conoscenza formidabile della documentazione (p. 114), C. giungeva perspicuamente a rilevare nell'ambiente parigino una lotta per una autonomia da conquistare, ed a Bologna invece per una autonomia da conservare, il che spiega ampiamente le diverse vie di organizzazione istituzionale. Lucidissima è l’individuazione della complessità della materia nel contributo sull’enfiteusi, talmente ricco da obbligare qualunque studioso di oggi a rimandarvi più volte.

Di minor valore la terza sezione, "Lo Studio e la città" - Rolandino Passaggeri dal mito alla storia (1950), da "La Mercanzia", pp. 212-24; Il collegio bolognese dei giudici e avvocati e i suoi statuti del 1393, dal "Bollettino del Consiglio dell'Ordine degli avvocati e procuratori di Bologna", pp. 225-35; Alcuni documenti sul commercio librario bolognese al principio del secolo XVI (1935), da "L’Archiginnasio", pp. 237-44; Le idee politiche di Giosuè Carducci e il tumulto studentesco del 1891 (1937), da "Nuova Antologia", pp. 245-71. Il profilo di Rolandino è sbrigativo, schematico, spesso impressionistico; le indagini sul collegio dei giudici e sul commercio librario sono ormai largamente obsoleti. Divertente, ma forse non altro, la rievocazione di un episodio di contestazione studentesca nei confronti di Carducci, nel quale C. si sforzava di trovare una coerenza politica per la verità di difficilissima decifrazione. Una coerenza che C. non riusciva a definire se non in negativo: non-repubblicano prima, non-socialista sempre, non-monarchico poi. Sostanzialmente non-democratico diremmo noi. Come in questo C. riuscisse a vedere un "logica sicura" (p. 255) rimane un mistero. Banalissima è poi la conclusione: come Dante - ovvio! - Carducci fece parte per se stesso. Di rilievo che nell’episodio C. guardasse non con simpatia ma con comprensione agli studenti, con sostanziale disprezzo alle mene dei professori ed alle amplificazioni della stampa (p. 262). Legga chi voglia rimeditare le implicazioni del tempo di redazione del saggio (1937!) ed i possibili parallelismi con i movimenti studenteschi di più recente datazione.

Poco più di una curiosità sono le "Note e recensioni" - Questioni statutarie bolognesi (1940), da "L’Archiginnasio", pp. 275-91; la rec. di Il liber secretus iuris caesarei dell’Università di Bologna, vol. I (1939), dalla "Rivista storica italiana", pp. 293-97; e di R. Finger Bologna und die Deutschen im Mittelalter (1942), ibid., pp. 299-302; Genesi e sviluppo dello ‘Studium Parmense’ (nota su una recente indagine) (1970), da "Studi medievali", pp. 303-11. Come appunto curiosità - ma preziosa! -segnaleremo l’opinione di C. sull’arimannia: "Certo, nessuna persona sensata vorrà negare che gli arimanni di Alboino, e anche quelli di Rotari e di Liutprando fossero Germani: ma nessuno, neanche ponendosi dal punto di vista della più limitata etnologia, vorrà negare la problematicità di una simile affermazione per i secoli posteriori al nono o al decimo. Lo sentiva già allora la coscienza popolare: e lo stesso Liutprando di Cremona, che sdegnava esser creduto romano e si affermava orgogliosamente longobardo, confondeva poi gli uni e gli altri nell’unica determinazione di Italienses" (p. 300). Per il resto, ripetiamo, quelle note risultano decisamente datate.

Utilissima ancora l’"Appendice" del libro, con quel lavoro su Gli archivi dello Studio bolognese (pp. 313-404) che se risale al 1938 non ha perso nulla della funzione di repertorio indispensabile a chi si deve avvicinare a quella materia.

Un Indice analitico - in realtà un indice dei nomi - chiude questo volume, testamento di uno studioso, ma ancora per tante cose indispensabile vademecum da tenere a portata di mano nelle nostre biblioteche.