Le "Historie Ferrarienses" di Pellegrino Prisciani *

Pellegrino Prisciani e la storiografia
Il nome di Pellegrino Prisciani, «retore, storico, poeta, professore allo studio di Ferrara, uomo dottissimo nell'età sua e grande amatore di libri», come lo diceva il Bertoni, «probably the most learned man in Ferrara in the last quarter of the Žfteenth century» per il Gundersheimer 1 , non Žgura neppure per un cenno fuggevole nella Storia della storiograŽa moderna di Edoardo Fueter 2 , anzi Ferrara non vi è affatto ricordata fra i centri principali della storiograŽa umanistica prima del 1500 3 . La ragione principale dell'omissione sta nell'essere l'opera maggiore di Prisciani ancora manoscritta; ma qui siamo ad un circolo vizioso: se l'opera è ancora manoscritta è perché il Prisciani è ancora un illustre sconosciuto; per riprendere ancora le parole del Gundersheimer, «this fascinating humanist, astrologer, courtier, antiquarian, historian, and diplomat deserves extended study» 4 .
Eppure la prima raccolta di scrittori di storia italiani si deve, come tutti sanno, a Ludovico Antonio Muratori, e nei Rerum larghissimo spazio è concesso ad opere tipicamente ferraresi, sia per l'argomento, sia per certi moduli di registrazione. Ma neppure nei Rerum Muratori stampò la storia del Prisciani, forse perché era al suo limite cronologico superiore, forse un poco per mascherare quanto egli stesso vi avesse abbondantemente attinto nel redigere i suoi annali estensi. PerŽno la più monumentale, ed al momento ancora insuperata per organicità, storia patria, le Memorie di Antonio Frizzi, ripeteva rigidamente lo schema delle Historie del Prisciani, ne riprendeva perŽno i singoli argomenti, ma lo citava direttamente con eccessiva parsimonia 5. D'altra parte da tempo è stato additato il ruolo rilevantissimo svolto da Ferrara come centro culturale, soprattutto nel Quattrocento, per fare solo alcuni nomi tra i più prestigiosi e di competenze diverse, da Sabbadini, Venturi, Bertoni, Garin 6 . É possibile, dunque, che una città visitata dal Biondo, Filelfo, Niccoli, Valla, Poggio, Traversari, Bessarione, Panormita, e che aveva conosciuto la splendida Žoritura della scuola di Guarino Veronese, non abbia segnato anche l'opera storica dell'archivista-bibliotecario-ambasciatore-professore Pellegrino Prisciani Pellegrino;? Sicuramente sì, visto che il suo nome è entrato prepotentemente nell'Iter italicum del Kristeller 7 . Credo sia tempo di restituire a cesare quello che è di cesare, almeno per alcuni cenni di carattere generale, vale a dire per quanto ci è concesso in questa sede, ripromettendoci ovviamente di proseguire altrove con maggiore profondità.

L'opera
L'opera storica del Prisciani, oltre che inedita, è andata in parte perduta: dei venti libri - almeno stando alla copia del Penna nella Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara - rimangono il I, II, IV, VII, VIII, IX.
Per quanto l'opera sia dedicata al duca, non è assolutamente certo che essa sia stata scritta su commissione. Da tempo Pellegrino raccoglieva materiale storico-documentario: Žn da ragazzo, su incitamento del padre, aveva visitato diverse biblioteche ed archivi di città italiane; altro materiale aveva raccolto quando era stato scelto come esperto - nella sua qualità di bibliotecario ed archivista - per la deŽnizione dei conŽni con Venezia 8 . Egli stesso aveva fatto ricercare e copiare nuovi codici, particolarmente a Nonantola 9 . Ma soprattutto, come i segretari toscani, Pellegrino era anche uomo politico: era stato ambasciatore a Venezia ed a Roma, podestà di Reggio, e sempre personaggio di spicco nella corte. Non è assolutamente possibile classiŽcare la sua storia nel genere delle celebrazioni dinastiche: intanto perché non è limitata al Medio Evo, come invece bisognerebbe pensare se fosse stata rivolta alla sola esaltazione della gloria dei signori d'Este - di una famiglia di origini ben note, indiscutibilmente medievali, e non mitiche -, ma va dalle origini, non della città, ma dai primi insediamenti nel territorio, al 1490 circa. La sua solidissima preparazione umanistica lo avvicina in parte al Sabellico - che conosce e cita esplicitamente (contestandolo) -, più che alla storiograŽa "pubblicistica" Žorentina; ma in questo indagare Žn da lontano le ragioni del presente, Pellegrino mostra di aver sentito sicuramente più importante l'inžuenza di Riccobaldo da Ferrara, le cui opere aveva cercato con passione, conosceva a menadito, apprezzava, citava letteralmente ed accuratamente per lunghi tratti 10 .

Le fonti
L'elenco delle sue fonti, quale risulta da un primo accertamento - quindi sicuramente incompleto-, non è né breve né banale. Tra gli storici grande peso è concesso in maniera singolare ad un gruppo di testi ebraici, di cui fanno parte la Genesi , le Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, «quod aduc latinum non habemus» 11 , i Talmutiste , e poi anche un rabi Salomon e un rabi Moises Gervedinensis (?), che mi risultano ignoti. Tra gli storici latini prevale naturalmente Livio, seguito a notevole distanza da Tacito e dall'epitome di Giustino. Polibio, usato a puri scopi geograŽci, è pur sempre deŽnito «auctore Romanorum Punicorumque bellorum». Conosce l'enigmatico Suida, cita Esiodo, Mercurio Trismegisto, Appiano di Alessandria, Erodiano; le Storie di Dione Cassio gli sono note, non sappiamo se nel testo greco, o nel volgarizzamento: c'era la possibilità di raggiungere entrambi: un bel codice greco era in possesso del suo maestro Battista Guarino, ed era stato ricercato anche da Lorenzo il MagniŽco; mentre un volgarizzamento, a cui il duca stesso teneva moltissimo, era nella biblioteca estense 12 . Tra i poeti il Virgilio dell'Eneide (ed il commento di Servio, naturalmente), delle Bucoliche e delle Georgiche, Lucano, Seneca, Marziale. Tra i testi cristiani gli inevitabili chronicon di Eusebio e quello di Girolamo, le Ethimologie di Isidoro di Siviglia. Tra gli storici medievali la guerra gotica di Procopio di Cesarea, Agnello Ravennate, altre cronache non meglio deŽnite, ma comunque «vetustissime», di Ravenna e di Padova, la storia di Genova di Iacopo da Varagine, Sicardo, Galvano Fiamma, le vite dei ponteŽci di Francesco Petrarca 13, gli annali modenesi di Bonifacio da Morano. Tra i geograŽ classici la Cosmographia di Tolomeo, in latino, Strabone, il Plinio della Naturalis Historia, Pomponio Mela e l'Itinerarium Antonini. Per Žni geograŽci sono adoperati anche la Meteorologia di Aristotile, il Timeo di Platone, le Genealogie e il De montibus del Boccaccio, e la «pictura Italie» fatta da Francesco Petrarca per il suo amico Roberto re di Sicilia 14 . Tra gli storici moderni notevole il gruppo veneziano: oltre a non meglio identiŽcate cronache e storie antiche, Lorenzo Monaco, Bernardo Giustinian, Marco «nobile veneto»; e il Sabellico. A Venezia aveva anche consultato «talasographiis suis et maritimarum partium descriptionibus quas vulgo chartas navigatorias dicunt»; a Ferrara ne aveva un'altra: «thalasographia nostra quam anno salutis nostre 1324 per Iacobum de Ludis venetum signata»; a Padova aveva reperito una «cosmographia antiquissima». Ricorda le vite dei ponteŽci del Platina, e Žtti sono inŽne i riferimenti al Biondo, ma più per confutarlo che per sostenere una proposizione (altro autore più volte citato come erroneo è il Boccaccio del De montibus ): «male hic locutus est Blondus...» è quasi un ritornello per tutto il primo libro; i suoi errori sono di diversa natura: dice di citare le Georgiche , ed invece si tratta dell'Eneide; riporta misure di lunghezza insostenibili; prende un abbaglio colossale dicendo il monastero antico di Nonantola nel territorio bolognese e fondato dalla contessa Matilde. Anzi Biondo fornisce la tipica occasione per riaffermare un emblematico assioma umanistico: non a Biondo si deve credere, ma alle sue fonti se sono veritiere; non al testo di Livio male interpretato da Biondo, ma al Livio stesso:«scientie veritatem de fonte magis quam de rivulis perquiremus», dice Pellegrino. Per confutare Boccaccio, - a malincuore perché «vir hic excellens», ma doverosamente, perché «veritas a nobis est describenda et tuenda» -, in una occasione mette in campo Virgilio, Servio, l'Itinerarium Antonini, Lucano, l'epitafŽo di Albertino Mussato e Marziale. Di altri autori - il Paolo Diacono della storia dei Longobardi, Paolo da Perugia; - sembra aver avuto solo conoscenza indiretta.
La sua cultura giuridica, prevalentemente "bolognese", si rivela attraverso le citazioni dal falso privilegio teodosiano sulla fondazione dello Studium bolognese, dal Decretum di Graziano, da Giovanni d'Andrea, dalla Glossa, e dalle tipiche massime giuridiche - in fondo proprio nodaria insegnava all'università ferrarese -, del tipo:«qui prior est in tempore, potior est in iure»; eccetera. Ricorda tuttavia anche i Commentaria in usus feudorum di Andrea da Isernia, Pietro Alvarotto e Baldo degli Ubaldi.
A ciò si aggiunga che alla conoscenza dei classici latini, e di alcuni greci 15 , univa con tipico gusto antiquario la lettura delle iscrizioni riconoscibili come "romane" nel territorio ferrarese, iscrizioni che conosceva in parte attraverso la raccolta che ne aveva fatto Giovanni Marcanova - consultata nella biblioteca del monastero patavino di San Giovanni in Verdara -, in parte direttamente, - egli stesso ne aveva fatto portare a Ferrara diverse dal contado -, e le copiava e riproduceva per quanto poteva accuratamente, in una maniera "fotograŽca".
Letteratura e documenti, scritti su carta e su pietra allo stesso modo, sono molto modernamente i pilastri delle sue storie 16 . Degno di notazione particolare è che tra i "documenti" sia anche da annoverare quella «pictura greca antiquissima» tratta da (ma naturalmente detta: di) Tolomeo, che Pellegrino; dice in possesso di Battista Guarino, «etatis nostre rector primus, et mihi preceptor optimus» 17.

Una storia ferrarese
A differenza sostanziale dalla storia universalistica, ad esempio di un Sabellico, la sua è storia prettamente ferrarese, circoscritta geograŽcamente, e, soprattutto, nella traccia del disegno cronologico. Fin dal Proemio all'opera: sì ai grandi esempi dell'antichità, per l'amore della giustizia si legga di Aristide ateniese, e per la castità di Alessandro il Grande che rispettò le Žglie di Dario, e per il pro patria mori  si legga di Orazio Coclite e di Muzio Scevola; ma

... si historia et rerum quarumcumque cognitio nobis in hac vita optimi sunt magistri ut sapientissimi viri multi dixerunt, quanto magis rerum propriarum et nostrarum intelligentia ex quibus et gloriosissimis ducibus reique publice nostre facilime demonstrabitur, que immitari, que fugere, ac vitare sibi sit utile. Nam simultarum rerum usus nobis multum prodesse potest, si cum exemplis prestantissimorum hominum coniunctus sit 18 .
Ma è ovviamente soprattutto l'uso del materiale documentario che ne fa una storia peculiarmente ferrarese: cita in lungo ed in largo il falso privilegio noto oggi come la Vitaliana, l'altro falso privilegio di Adriano I, ugualmente ben noto ai cultori di storia locale, ma anche tanti altri documenti, privati e pubblici, alcuni dei quali oggi perduti per lo studioso moderno, di cui aveva continua frequentazione nell'archivio ducale. Ed analogo discorso va fatto per le fonti narrative: La Chronica parva 19 , quelli che il Prisciani chiama gli Annales veteres, che oggi conosciamo come De rebus Estensium 20 , e quella che egli dice la Chronica nova, e che sono per noi oggi gli Annales Estenses di Jacobo de Delaito 21 . Così come uso tipicamente "ferrarese" fa del panegirico che Giano Pannonio aveva dedicato al suo maestro Guarino.

Il metodo
Tutte queste fonti sono adoperate con notevole sapienza: soprattutto dal confronto di esse Prisciani desume, magari dopo esser passato per guadi perigliosi: un certo ramo del Po deve dirsi o no "taglio"? «Scissuram recte žumen hoc apellare non possumus... licet Polibius verbo scinditur usus fuit... non nulli tamen scriptores alii bifurcatur dixere...». Oppure: quando Tolomeo parla delle città, ed elenca quelle dei Cenomani, - osserva il nostro - là dove dice: «Cenomanorum, que sub Venetas sunt civitates», usa quel sub non per intendere «contenute», ma come se fosse un infra , vale a dire per indicare che il loro territorio è «al di sotto» di quello dei Veneti; infatti se invece stesse descrivendo in quel punto le città della Venezia, non starebbe descrivendo le città dei Cenomani.

Le ragioni
Gli scopi ultimi sembrano essere tuttavia in verità - più che quelli dello storico -, tipici del ragioniere e del leguleio insieme. Paradigmatica in particolare è la minuzia descrittiva. La passione per la precisione geograŽca, tuttavia, gli veniva sicuramente dall'esempio fornito dalla Chronica parva, che nella prima parte era tutta dedicata alla descrizione analitica del territorio ferrarese 22 , ma era particolarmente consentanea al temperamento del Prisciani, che dunque la riprese ed arricchì abbondantemente, dilatando la materia per tutti i primi tre libri, ma pasticciando però il tutto con una pletora di citazioni ripetute, tanto utili per la chiarezza, quanto fastidiose per la lettura.
Con tutto ciò si potrebbe credere che il Prisciani sfugga alla tipologia dell'umanista sostanzialmente tanto avviluppato dalla sua cultura classica da non riuscire che stucchevole e vuoto. «Qual senso doloroso non afžigge mai perennemente il lettore, pensando che sotto alle frasi liviane e cesariane di un Facio, di un Sabellico, di un Foglietta, d'un Senarega, d'un Platina..., di un Bembo... e perŽno di un Giovio... se ne vada perduto ogni colorito locale e individuale e ogni interesse alla piena realtà degli eventi!», scriveva a suo tempo - e con ragione - il Burckhardt 23 . Ma se per il nostro non si tratta certamente di questo, come si è visto, l'impressione gelida di freddezza che risulta dalla lettura dell'opera rimane, e deriva da quella che mi sembra la cifra rivelatrice dell'intera personalità del Priscian: la razionalità. Già il Garin ha adoperato un consiglio "astrologico" dato da Pellegrino a Isabella d'Este nel 1509, per esempliŽcare come anche la pratica astrologica, di per sè la più obiettiva ed esente da implicazioni teologiche, sia in realtà «ben lungi dal considerare gli eventi dominati da un ferreo fato, inseriti tutti in un meccanismo rigoroso», e tutto ciò - paradossalmente solo in apparenza - è qualiŽcato come «un razionalismo a oltranza» 24 . Ebbene di un simile razionalismo Pellegrino è Žgura piena.
Qualunque dei suoi discorsi ha l'andamento di un teorema: posta la questione, se ne indicano i modi di soluzione, e quindi si dà la dimostrazione della tesi. La stessa parola demonstratio, con le ovvie varianti demonstrabimus, demonstravimus eccetera, ricorre quasi ad ogni pagina della storia. «Nos vero, qui in hoc opere nostro et fabulas et persuasiones sequi turpissimum censuimus, sed demonstrationibus probationibusque... deducere...», dice il terzo capitolo del libro primo; ma ancora più chiaro è l'inizio del terzo capitolo del libro secondo:

Premisit mathematicorum omnium antiquissimus pater Euclides in admirando ellementorum opere suo, premiserunt et post eum scriptores alii plurimi in profundissimis, et geometrie, et arithmetice vigiliis suis, comunes quasdam animi conceptiones; nec non in demonstrandis prepositionibus suis eisdem sibi sint necesse illas semper reppetere, ipsis fuere necessarium. Sic et ego in presentiarum... in disputationes, argumentationes, et demonstrationes Žnium horum nostrorum, ne innotam rem ingrediar premittam nonnulla, que ubi michi opus sit pro iam demonstratis habebuntur
E lo stile "matematico" si evidenzia quindi in un'elencazione gerarchica per argomenti: primo..., secondo..., terzo..., eccetera.
E questo basti per lo spazio qui concesso; per ora una sola conclusione: Pellegrino Prisciani è Žgura limite: alla Žne dell'Umanesimo, al quale appartiene innegabilmente per lo strumentario, ma all'inizio di certo razionalismo cinquecentesco per certi atteggiamenti mentali; la sua storia ferrarese ne risulta eruditissima e solidissima di documentazione, ma per lo più fredda come non può che essere un teorema.