L'imperatore tiranno.
La parabola di Enrico VII nella storiografia coeva

La connessione tra la situazione politica italiana e la decisione di Enrico VII di intervenire personalmente nella penisola è un dato immediato e costante nei cronisti italiani coevi 1. La necessità per il novello re di Germania di dover recarsi a Roma per l'incoronazione imperiale 2 è generalmente sottaciuta; la novità incredibile - almeno fino a mezzo secolo prima - di un imperatore eletto con il consenso e quasi per volontà papale - il simbolo del partito ghibellino scelto dal simbolo del partito guelfo! - non è invece del tutto ignorata. Dino Compagni presenta la scelta del nuovo imperatore come frutto della riflessione degli uomini di chiesa, papa e cardinali in particolare. Dice il fiorentino che dopo secoli di scontri alla corte papale ci si rese conto che la debolezza della Chiesa derivava dalla debolezza dell'Impero; così "non avendo braccio né difenditore; pensarono fare uno imperadore, uomo che fusse giusto, savio e potente, figliuolo di santa Chiesa, amatore della fede". Qualche cosa del programma politico che ad Avignone andava per la maggiore per quanto riguardava la situazione italiana 3 è dunque anche giunto al Compagni; per il resto è dovuto nulla più che ad un eccesso di entusiasmo il ritratto più che altro morale che il fiorentino fornisce dell'eletto: "uomo savio, di nobile sangue, giusto e famoso, di gran lealtà, pro' d'arme e di nobile schiatta, uomo di grande ingegno e di gran temperanza; cioé Arrigo conte di Luzimborgo di Val di Reno della Magna, d'età d'anni XL, mezano di persona, bel parlatore, e ben fazionato, un poco guercio" 4. L'entusiasmo dei toni non riesce comunque ad esaltare più di tanto agli occhi del lettore il piccolo feudatario del Lussemburgo, finito sul trono imperiale quasi per caso: per l'appoggio del fratello vescovo di Treviri, e scelto dalla parte tedesca per una volontà degli elettori, invalsa da qualche tempo, a scegliere fra dinasti poco appariscenti del bacino renano 5, dalla parte papale soprattutto per contrastare le mire di Filippo il Bello. A conferma basti leggere il Mussato, che, dopo averne celebrato enfaticamente l'origine, "prosapia aeque nobilis antiquis orta stipitibus", più avanti ammette: "quanto humilius habuerit ipse primordium, tanto celerius volaverit in sublime, Natura Fortunaque faventibus" 6. Per un uomo scelto dagli uomini di chiesa poi era naturale e doveroso sottolinearne la pietà, ed infatti i cronisti di parte clericale celebravano la frequenza ed intensità della sua vita religiosa 7.
La realtà era ovviamente diversa: ben conscio dei limiti di manovra imposti della propria posizione, invece, Enrico sulle prime con molta modestia aveva solo teso ad evitare i contrasti con i delusi pretendenti all'impero, gli Asburgo, e ad allargare il proprio prestigio e il dominio personale diretto, in totale accordo con le linee programmatiche dei suoi predecessori. Anche la scelta di impegnarsi in Italia non era dovuta affatto all'improvvisazione, alle ragioni tutte contingenti di cui dicono i cronisti, quanto invece raccoglieva l'interesse per la penisola mostrato da Rodolfo d'Asburgo, da Adolfo di Nassau, soprattutto da Alberto d'Asburgo 8 prima di lui; interesse motivato dalle tentazioni che comunque induceva il titolo imperiale 9. Sembrava in realtà quello italiano l'unico terreno che offrisse una qualche ulteriore possibilità di manovra ed un qualche risultato concreto. O forse è vero quello che diceva il Compagni - con molto più rispetto di noi -, che cioé si fosse un po' montato la testa: "per lunga vacazione dello Imperio, quasi si reputò niente a poter esser re" 10, o si trattava di semplice ambizione per una grande impresa, come è incline a credere (ma probabilmente in accordo con un racconto programmaticamente esemplato su Livio e Suetonio 11) Albertino Mussato: "Pacata Alemania... ad maiore direxit animum... Italorum tentare partes induxit in animum" 12.
Sta di fatto che se l'elezione di Enrico interessa poco al cronista italiano in genere, stupefacente risulta invece in ognuno il semplice fatto che Enrico venga in Italia. Chi scrive di storie è quasi obbligato a fare il punto 13. E non si tratta della meraviglia del solo cronista: tutti si meravigliavano. Come dice Ferreto de' Ferreti in generale i "Lombardi" si stupirono perché ormai dai tempi di Federico II non avevano più avuto rapporti diretti con nessun imperatore 14. Anche per Dante com'è notissimo l'autorità imperiale in Italia dopo Federico era del tutto annichilita 15, ed in generale l'ottica "cittadina" era sul piano ideologico soverchiante 16. Lo stupore di cui dice il Ferreto era dovuto al fatto che nell'Italia settentrionale - che è l'unica naturalmente ad interessare veramente il vicentino -, ed in Toscana 17 le città avevano mostrato di non aver nessun bisogno di imperatori. Non erano certo rimaste politicamente inerti, anzi si erano date al contrario uno sviluppo amministrativo ed istituzionale in continua e rapida evoluzione, e perciò stesso largamente instabile, ma senza discussione soprattutto con esiti profondamente diversi da quelli che Federico II si era trovato davanti. Che cosa voleva ora Enrico di Lussemburgo in una Italia che pensava in termini esclusivi di "popolus" e di "domini"? Dove "guelfo" e "ghibellino" era adoperato volta a volta non tanto per contrapposizione tra i sostenitori dei diritti del papato e quelli dell'impero, quanto invece per difendere gli interessi specifici di questo e quel gruppo, come si era verificato più volte in passato ad esempio a Cremona ed a Padova 18? Nonostante la novità dell'avvento dell'imperatore eletto i cronisti romagnoli ignorano completamente la cosa 19.
La notizia della prossima venuta era anche intesa come un ulteriore elemento destabilizzante in un Italia padana che senza alcun dubbio di questi elementi non difettava. "Nell'autunno del 1310 quanti dominavano in Italia furono obbligati a definire il loro atteggiamento verso il re dei Romani nella persona di Enrico di Lussemburgo", ha scritto John K. Hyde 20, ed è notazione esatta circa la necessità di presa di posizione di fronte ad un fatto tanto nuovo da causare lo "stupore" di cui diceva il Ferreto. Lo schieramento guelfo - meglio: dei signori guelfi! - tiene consiglio nella casa del capo riconosciuto, Guido della Torre, racconta il Cermenate. I pareri sono variegati: Filippo Langosco si mostra favorevole all'iniziativa imperiale, Antonio di Fissiraga propone che ognuno si regoli come crede, Guglielmo Cavalcabò e Simone Avvocati sono decisamente contrari. Guido per conto suo addirittura ruggisce, ""video mortem nostram". nec falsus vates fuit" 21.
Per tutti quelli che erano superiori, estranei, o solo vittime dell'antagonismo fra le parti, sorprendersi per l'arrivo dell'imperatore designato significava o la completa sfiducia nella sua capacità personale di incidere sulla situazione italiana, o più radicalmente il totale ridimensionamento ormai della stessa funzione imperiale. Quando ragioni per questa svalutazione avevano fornito in sovrabbondanza le ultime vicende della storia italiana, con le crisi successorie dell'impero, con il fallimento del programma di egemonia politica di Bonifacio VIII, con il polarizzarsi delle speranze rispettive tra Roberto solo nominalmente re di Sicilia e Federico III d'Aragona, con l'annichilimento, insomma, di ogni prospettiva di raccordo che non fosse quello "problematico" di guelfismo e ghibellinismo, complicato nelle città padane dalle ragioni delle "parti" che con quei due schieramenti variamente si intrecciavano.
Nicola da Butrinto da buon diplomatico è il solo ad avere occhio attentissimo alla situazione generale, non solo italiana, oltre che per le sue doti naturali anche per il ruolo personale specifico che ebbe in tutta la vicenda, di cui spesso si compiace, qualche volta dilungandosi oltre il lecito. Dalla sua relazione inviata a Clemente V - testimone più minuzioso di tutta l'impresa - sappiamo delle trattative che coinvolsero volta a volta il pontefice, il re di Francia, Roberto d'Angiò, alla lontana gli Aragonesi, le diverse città ed i signori padani.
Che dunque l'impresa di Enrico in Italia si svolgesse inizialmente tutta all'insegna di una generale pacificazione - ed in accordo con il pontefice 22, cosa che non si verificava da secoli - è indubbio e incontestato, soprattutto la buona fede di Enrico. "Parte guelfa o ghibellina non voleva udire ricordare" 23; "Cuiusquam cum subiectis pactionis impatiens, Gibolengae Guelfaeve partium mentiones abhorrens" 24; "cum ipse partem in Lombardia non haberet, sed totum, nec partem vellet tenere in Lombardia, nec pro parte venerat, sed pro toto. Ex isto verbo fere omnes Guelfi fuerunt consolati et omnis homo dicto regi benedicebat" 25. Matteo Visconti lo invoca "divus pater" e speranza di tutti gli esuli 26. Tanto più che con le intenzioni ed i proclami si allinearono i fatti, almeno fino al grande giorno della concordia generale proclamata a Milano: gli estrinseci vennero fatti rientrare nelle rispettive città, mentre funzionari imperiali garantivano una supervisione.
Così, "multis inter Italicos antiquis atque recentibus subito sedati odiis..." 27. Si badi: "multis", non: "omnibus"; in realtà non si trattava semplicemente delle sole Alessandria ed Alba dedite a Roberto d'Angiò 28, ma era piuttosto tutta la società padana in posizione d'attesa. La situazione italiana, se richiedeva oggettivamente tempestivi interventi in vista di una pacificazione, almeno per chi fosse interessato ad una stabilizzazione - che non era poi nelle intenzioni di tutti -, era talmente ricca di attese e di protagonisti da rendere l'intento tanto apprezzabile quanto vano. Come si potevano conciliare le pretese dei padovani a veder riconosciuto "legalmente" il loro dominio su Vicenza 29 con le aspettative parallele dei vicentini ad esserne liberati 30? Qualunque decisione avesse preso in merito il Lussemburghese, una decisione che non fosse puramente dilatoria, sarebbe spiaciuta a qualcuno. Enrico scelse nello specifico non tanto di liberare Vicenza dalla tutela padovana, quanto di punire la malfida città di Antenore, e così vennero tirati in ballo anche Alboino e Can Grande della Scala 31. Si poteva far di meglio al fine di rinfocolare gli odi nel triangolo della Marca "gioiosa"?
Forse la stessa preoccupazione dell'imperatore di mirare in alto gli impediva la piena comprensione di una situazione totalmente legata al "particulare"; Enrico pensava di sanarla semplicemente eludendo le ragioni di contrasto: "Ma la volontà dell'imperadore era giustissima, perché ciascuno amava, ciascuno onorava, come suoi uomini" 32; "cuncta absoluto amplectens Imperio" 33. E l'incomprensione è comune a tutti i consiglieri imperiali. Quando Enrico, in procinto di partire per Roma, avverte che il tentativo di pacificazione, riuscito fino alla concordia di fronte a S. Ambrogio, mostrava già di rivelarsi fragile di risultati duraturi, consulta i suoi, "citramontanis et ultramontanis, non solum suis consiliariis, sed etiam pluribus aliis sapientibus ad hoc vocatis", per sapere qual'è il "modus melior" per conservare lo stato esistente; e tutti concordano nel suggerire di portarsi dietro i "maiores de utraque parte" di ogni città, "quia illi erant, qui faciebant brigam" 34. Non era provvedimento sostanzialmente diverso dall'espulsione dei magnati, che già diverse città avevano esperimentato. Ma come quello non incideva sulle strutture del potere, ed era quindi destinato a fallire.
Come dimostrarono poi i fatti di Cremona: il programma di intervento scambia un bersaglio con un altro. I cremonesi perseguitati dall'imperatore, e per i quali il vescovo di Butrinto cercava di intercedere, "non erant maiores suae civitatis, quia maiores noluerunt obedire, sed civitatem dimiserunt. Non erant peiores, sed iudicio omnium de melioribus". Questo è il punto: non erano magnati, non era popolaccio: era il meglio della classe media. L'essersi accanito contro di loro fu il peggiore errore dell'imperatore: "si unquam ipse in suo regimine male fecit, meo iudicio debili, circa subditos, ibi fuit" 35. Anche il "ghibellino" Giovanni da Cermenate descrive Sovramonte Amati, il più rappresentativo dei cremonesi contro i quali si accanirà l'imperatore, non come uomo di parte, ma come colui cui stava a cuore il bene comune: "multitudini et plerisque ex magnatibus, qui commune bonum summo studio curabant, Supramons carior fuit, quippe a iuventute publicola bonis moribus ac reipublicae utilis habebatur" 36. Il guardare al bene comune distingueva il giusto amministratore della cosa pubblica dal tiranno, che mira invece ad interessi personali o di parte 37, o distingueva chi appoggiava i tiranni da chi li osteggiava 38.
Sul momento l'imperatore eletto non pensò che ad un invio di propri vicari. La soluzione a ben guardare prefigurava comunque una scelta, quella di un regime signorile, del governo di uno solo; ma senza il sostegno esplicito e "personale" di una parte almeno della cittadinanza sulla quale il vicario doveva esercitare la sua amministrazione. Il passo ulteriore non lasciava via di scampo: l'imperatore avrebbe potuto superare l'impasse solamente dando regolarità costituzionale ad un tiranno che già si era imposto per propri meriti e col sostegno di un certo schieramento, non più solo un tiranno/funzionario. A questo effettivamente si riduceva il fantasma dell'autorità imperiale in Italia: "a sanzionare formalmente col vicariato imperiale le signorie sorte dall'interno delle città comunali" 39, a legittimare i tyranni scaligeri etichettandoli come ministri regis, ricorda il Ferreto 40. Questo era l'Enrico che non voleva neppur sentir nominare le parti, l'Enrico atteso anzi come il liberatore dalle tirannidi?
Il richiamo alla figura centrale dell'imperatore che si esercitava con il vicariato rispondeva ad una esigenza dell'imperatore, e non risolveva minimamente la conflittualità nelle e tra le città, né risolveva i loro problemi di coordinamento. L'imperatore prima o poi se ne sarebbe andato, e tutto sarebbe ripreso come prima, perché nessuna delle ragioni singole di dissenso non solo era stata cancellata, ma neppure affrontata. Il nodo irrisolvibile era proprio questo: non era possibile regolarizzare il "locale" intervenendo sul "generale". Enrico, volendo ricondurre i contrasti, mediante la sola, pur decisa, affermazione dell'ineludibilità del riferimento all'impero, nell'ambito di un ordine superiore, dimostrava una conoscenza solo epidermica dello stato delle cose; di buone qualità personali, ma "inexpertus" delle cose italiane lo diceva il Ferreto, che a questo imputava il fallimento di tutta l'impresa italiana 41.
E poi non si trattava semplicemente di sedare gli scontri tra le fazioni, con il richiamo ad una autorità superiore, disegno che derivava dall'idea - sicuramente fonte di equivoci - che l'Italia settentrionale e la Toscana fossero null'altro che una informe congerie di irrequiete entità cittadine; ma rimaneva il problema costituito dalla mancata definizione degli ambiti politici ed istituzionali generali. Sarebbe stato necessario enucleare con chiarezza, anche concedendo ad una certa elasticità, le sfere di influenza ed il terreno di intervento giuridicamente certo rispettivo del papa, dell'imperatore, di Roberto d'Angiò e di Federico d'Aragona, nel quadro dominativo della intera penisola 42, e rimaneva irrisolta, perché data da tempo vanamente per scontata, la posizione dei re nei confronti dell'imperatore. E non vale ricordare che in fondo però lo scontro aperto a lungo fu evitato: se l'atteggiamento per tanto tempo di re Roberto, il re "da sermone" di Dante e di altri 43, fu incerto, le ragioni dello schieramento furono più forti dell'inerzia dell'angioino e della stesso volontà imperiale. In questo modo, senza quella vicendevole definizione, accanto alla resistenza di questa o quella città, per tradizione e dirigenza politica avversa ad altra città, si sarebbero avute - come poi puntualmente si verificò - ribellioni generalmente all'insegna di schieramenti filoangioni o filoaragonesi o filopapali, o insieme l'uno con l'altro, come fu ad esempio il caso di Firenze, ribelle all'impero perché nemica di Pisa, perché favorevole a re Roberto, perché favorevole a Clemente V, quest'ultimo del resto legato con fili numerosi ai banchieri della città... Ed infine ci sarebbe stata la rivolta esplicita del re angioino, costretto dall'irrigidirsi di Enrico, al punto che Roberto, sostenuto dai suoi giuristi, sarebbe giunto a negare validità alla stessa istituzione imperiale; conclusione indubbiamente con forti caratteri di novità 44, eppure niente altro "in realtà che la logica conseguenza di una propaganda che per secoli aveva insistito nel riconoscere, nel conflitto fra la chiesa romana e gli imperatori tedeschi, l'eterno scontro fra il bene e il male" 45. Veramente con Enrico VII si chiudeva un ciclo.
Ma tutto questo alla fine del 1310 era ancora del tutto imprevedibile, e tutto sommato l'esito dello scontro tra i grandi interessava a pochi, tanto più che non se ne vedevano prodromi, se non vaghi; gli occhi degli italiani erano puntati su altro. Se infatti ora riprendiamo la lettura del Ferreto nel punto che abbiamo ricordato più sopra, dopo la registrazione dello "stupore" per la venuta imperiale, troviamo un inciso che risulta decisamente sorprendente, se non lo si vuol intendere come un luogo comune: "tuttavia era sempre rimasto loro [ai Lombardi] un grande terrore dei tiranni, dalle cui angherie, sopportate a stento, era afflitta l'Italia" 46. Anzi proprio questo era il senso della venuta di Enrico, per il Ferreto 47 come per il Compagni: "Idio onnipotente, il quale è guardia e guida de' prencipi, volle la sua venuta fusse per abbattere e gastigare i tiranni che erano per Lombardia e per Toscana, infino a tanto che ogni tirannia fusse spenta" 48. Alla "tirannia" padovana pensano i vicentini esultanti all'annuncio dei legati imperiali 49.
L'imperatore viene dunque per abbattere i tiranni, da tutti aborrite; o non piuttosto le tirannidi "guelfe", visto che Ferreto e Compagni sono "ghibellini"? Sembrerebbe di dover rispondere con una decisa negazione: tutte le tirannidi, di qualunque colore. Allora tutti sono "repubblicani"? Nessuno potrebbe neppure pensarlo. Non era una questione di forme di governo, quanto di uomini; la tirannide non risiede nell'intrinseca funzione, ma nella persona. Basti vedere la presentazione "a dittico" che il Compagni fa di Matteo Visconti e di Guido Torriani: l'uno "uomo savio e astuto più che leale", l'altro "leale signore, ma non così savio" 50, dove risulta all'evidenza che non conta la parte che si rappresenta, o si guida, ma solo l'abilità e la capacità e la forza politica che si riesce a realizzare 51.
Ferreto, lega la venuta di Enrico con l'abbattimento della tirannide; si deve riflettere sul fatto che questo collegamento sia fatto da uno che la storiografia ha concordemente indicato come un fedele servitore, per non dire peggio, degli Scaligeri, con l'unica eccezione del Bowsky, che addirittura lo diceva "Guelf chronicler" 52. Almeno fino a ieri, visto che oggi anche Arnaldi sembra aver mutato le sue sicurezze passate in proposito 53. Ferreto pare aborrire qualunque tirannide, che del resto in quegli anni si vedeva dovunque intorno, come tutti sanno che riconosceva Dante, con tanti altri. Si potrebbe obiettare, ad evitare l'imbarazzo, che Ferreto in realtà non vuol saperne delle crudeli tirannidi, e solo di quelle; ma se si legge l'elenco che il vicentino scrive immediatamente dopo il passo che in questo momento ci occupa si trova, allineato con tanti signori, anche - incredibile? - Can Grande, che a Verona è detto presiedere allo stesso modo di un "violento" come Guido Torriani, che - è detto esplicitamente - a Milano esercita inequivocabilmente una "crudele tirannide"... Già, prima del vicentino - e pour cause, visto che la storia del Ferreto è per dir così complementare a quella del poeta-storiografo padovano 54 -, il Mussato, quando aveva dovuto presentare la situazione dell'Italia al momento della venuta di Enrico, aveva fatto non solo della "tirannide" il segno distintivo della città padana, ma pure la parola sinonimo di violenza, quasi a spiegare le divisioni e quanto ne derivava con lo stesso instaurarsi della tirannide, non il contrario, come saremmo portati naturalmente a pensare: le città "quarum nonnullae etiam, et praesertim Longobardorum passae tyrannides sive exiliis, sive coërtionum profligationibus, diu marcuerant" 55. Che il Mussato vedesse tutto in chiave padovana, come riteneva lo Hayde è fortemente dubbio 56, ma è certo che, per quel che riguardava Padova, il Mussato faceva derivare tutti i mali da Ezzelino da Romano...
In ogni caso, quando pensa all'Italia, quando deve sciorinare il "tappeto nomenclatorio" della Valle Padana ai piedi di Enrico, come più o meno già aveva fatto Paolo Diacono per Alboino 57, Il Ferreto pensa e scrive un elenco di sole città del nord. I meno provinciali avevano certo presente la situazione generale: Dante, e poi Marsilio da Padova, ed ancora Petrarca, guardano con nostalgia e speranza ad un imperatore occidentale che metta ordine non solo in Italia; ma si trattava di pochissimi spiriti eletti. Per il francescano Pipino, che redige una cronaca universale, di tutta la vicenda di Enrico VII ha rilievo la sola questione se fosse o no lecita la sua coronazione in Laterano invece che in S. Pietro 58. Era però successo anche l'opposto: chi sarebbe stato propenso a guardare solo ai fatti cittadini fu costretto ad allargare la prospettiva. L'ingresso sulla scena di Enrico fu cosa talmente dirompente da obbligare perfino il "fiorentinissimo" Compagni a spostare più in alto e decisamente la specola della sua storia, al punto che a partire dal libro XXIII del libro III finirà col parlare di Firenze solo saltuariamente. Tuttavia in generale il vicentino ed il padovano, il milanese ed il cremonese ed il ferrarese hanno attenzione eminente se non precipua per la Valle Padana: qui è la scena che conta, è qui che città, signori e imperatore decidono del destino del reciproco confronto.
E qui la sperimentazione politica sul piano istituzionale aveva seguito, ed avrebbe seguito seppure con forte squilibrio 59, due vie, con ancora qualche residua possibilità di coesistenza; la "tirannica" e la repubblicana. Orbene nella panoramica fornita dal Ferreto al momento dell'avvento imperiale le due linee di sviluppo sono colte ed indicate all'evidenza. Si comincia da Milano, dove domina ormai da otto anni "con la sua crudele tirannide" Guido della Torre; non diversamente un tiranno governa Bergamo, Simone di Collubrano Vercelli e Novara, Alberto Scotti Piacenza, Filippo Langosco Pavia, Martino Lavezzari Como, Giberto da Correggio Parma, Rinaldo Passarino Bonacolsi Mantova, Alboino e Can Grande della Scala Verona. Poi una serie, come dire, "intermedia", che comprende i Padovani - sembrerebbe assimilati ai tiranni - che tengono Vicenza; Rizzardo da Camino tiranno sì, ma "non multum trux", a Treviso; Maffeo Mai, che subentra al fratello vescovo, a Brescia; Cremona, a metà fra regime popolare ed uno nobiliare, dove comunque hanno particolare rilievo i Cavalcabò; Antonio da Fissiraga a Lodi e Crema. Poi decisamente l'altra sponda: Modena, Reggio e Bologna - l'unica che non deve contrastare nessun aspirante tiranno - in mani popolari. Infine le eccezioni: Venezia e Padova, felicemente in pace; Ferrara e la Romagna oppresse da Roberto d'Angiò "per incarico papale". Lontane Firenze, Lucca e Pisa hanno cacciato i nobili e potenti e sono tra qualche contrasto in potere del popolo 60. Questa è l'Italia che secondo il Ferreto Enrico di Lussemburgo si trova di fronte. L'idea di un paese perennemente in preda alla tirannide è la sola costante, se ancora al concilio di Pavia, dopo quanto era avvenuto a Cremona, dopo quanto era avvenuto a Brescia, ad Enrico si rivolga l'invito a che "urbium sedibus tyrannos deponat" 61. Se Ferreto Ferreti, ripetiamo dopo Cremona e Brescia, mentre l'imperatore è a Pavia, si lancia in una lunga digressione per illustrare i mali della tirannide; digressione che è certamente "un giudizio senza appello nei confronti dei due, di cui, in quanto vicentino, stava avendo mentre scriveva più diretta esperienza, intendo dire Alberto II e Mastino II della Scala" 62, ma anche lucida ammissione che l'impresa di Enrico è irrimediabilmente già fallita: "hec sola orbis hora tellusque nobilis, regis impatiens tyrannide opprimi gaudet, numquamque libera, servire mavult, ducibusque parere impiis, quam iuste gubernari" 63.
Si ricordi a questo punto l'alone entusiasta delle speranze di chi, alla notizia della discesa imperiale, aveva visto finalmente giunto il momento di un ribaltamento dei vecchi regimi, di chi confusamente attendeva la liberazione dei tiranni, o genericamente un'era di pace 64: giunge l'imperatore, quasi inerme, come quasi concordemente rilevano i cronisti, "con pochi cavalli... sanza arme" 65, "tanquam pauper" (ma con la stessa concordia le cronache dimenticano di rilevare - con l'unica eccezione del disincantato Ventura 67 - come però ben presto Enrico si fornisse di forze militari notevoli 68). Solo il Ventura, ancora, - che fu testimone diretto di quei primi fatti - asciuttamente comincia a narrare l'impresa italiana con totale realismo: "congregata multitudine militum..." 69. Altro che proclami di pacificazione...
Gli vanno incontro a Torino i grandi signori di tutta la Lombardia, ed anche i più navigati ne sono ammaliati 70. Per Dante l'"alto Arrigo" incarna l'ideale, rende pensabile la resurrezione del potere sommo e della pace per tutti, ma per l'Italia in particolare, il ristabilimento dell'indipendenza dell'autorità imperiale ed insieme della concordia tra temporale e spirituale, così che fossero chiare per l'umanità le vie "del mondo e di Deo" 71. Ci si guardi dal considerare Dante un eterno visionario: il poeta è anche l'unico a dare una risposta ideologicamente coordinata alla questione concernente il rapporto tra monarca universale e re, tra monarca, re e signori 72, oltre le ragioni giuridiche.
A quell'altezza di riflessione politica non arriverà nessuno nei suoi giorni. Perfino Nicola da Butrinto non articola la sua relazione sul piano dei diritti rispettati o infranti, quanto piuttosto sugli atteggiamenti morali, per cui i protagonisti sono leali o infidi, e le ragioni teoriche dimenticate 73. I sentimenti la vincono a dismisura sulle analisi. Che l'impresa italiana di Enrico sia una missione, voluta da Dio, risulta ancora più evidente nelle parole del Compagni, notissime: "e venne giù, discendendo di terra in terra, mettendo pace come fusse uno agnolo di Dio" 74; "tanquam deum in terris", dice il cremonese Gasapino Antegnati, fino a ieri totalmente ignoto come cronista, ed oggi riemerso 75. Non diversamente, anche se meno ricordato, illustra l'atmosfera un episodio riportato dal Cermenate: "... nuntius... mirabilem virum velut monstrum apparuisse nuntians, quem ut caeli numen, undique calcatis stratis, visendi causa cursitans miratur populus, et omnis adorat Italicus Gibellinus"; ma a differenza dell'entusiasmo del Compagni qui il disincanto del cronista, pure da sempre indicato - per la verità senza grandi ragioni - come ghibellino 76, è invece evidente, e dal tono ironico adoperato e dal realistico commento finale: "tacitus subrisit rei praescius rex" 77.
Se però ci si dice superiori alle parti si finisce con lo scontentare la parte che per il momento è vincente. Allo "stupore" di cui diceva il Ferreto si erano accompagnati infatti subito insieme la delusione di una Italia per la gran parte guelfa, le speranze ghibelline, e l'entusiasmo fideistico di chi vedeva nel destino e nella forza superiore dell'impero lo strumento efficace per superare le incomponibili ambizioni partitiche: "omnes Lombardi indubitanter credebant quod esset homo pacificus, iustus, humilis et sanctus, et quod Ytaliam in pace gubernaret" 78. Riccobaldo notava che il rientro dei fuorusciti patrocinato dal Lussemburghese, un provvedimento senza dubbio all'insegna della pacificazione, aveva invece messo subito in sospetto fiorentini e bolognesi 79; ma la diffidenza in maniera altalenante era generale, come ben rilevato dal Compagni, che pure addossava ogni colpa all'azione del maligno: "i Ghibellini diceano: "E' non vuole vedere se non Guelfi"; e i Guelfi diceano: "E' non accoglie se non Ghibellini": e così temeano l'un l'altro" 80.
Del resto nessuno si nasconde che il novello imperatore aveva un gran bisogno di denaro, ed il ristabilimento dei legami con le ricche città italiane sembrava la via maestra per procurarlo. Tutta l'impresa italiana si caratterizza come una grande campagna per procurare alle casse imperiali quanto più denaro fosse possibile e da tutte le parti possibili 81. Su questa necessità - o avidità - si appuntano le critiche unanimi dei cronisti. Enrico era ricco di belle qualità, ma era alla perpetua ricerca di soldi: "Hic etenim rex noster, vere magnanimus et omnium virtutum dives, erat pecunia et auro nimium pauper [et] nihil nisi Italicis adiunctis opibus propositi agere omnino volebat" 82. In un caso Giovanni da Cermenate addita proprio nella "vilissima res, pecunia" la "magnae seditionis ac regi magnae cladis causa" 83. La vendita delle magistrature è suggerita all'imperatore eletto, oltre che da cattivi consiglieri, dal desiderio di denaro 84. In definitiva: "De istius nenpe domini avaricia et crudelitate longe maiora possent enarari... comune dicebatur ipse satis avarus quia ex se ipso pauper erat" 85.
Il progetto iniziale fu presto abbandonato, più perché Enrico fu forzato a farlo che per scelta 86. Per la verità che fin dagli inizi della parabola imperiale di Enrico ci fosse un sigillo di parte lo riconosceva perfino un candido sostenitore di Enrico come Dino Compagni: Niccolò, il "Cardinale di Prato", di note a tutti simpatie ghibelline, per il Villani ghibellino senza distinguo 87, "il quale molto avea favoreggiata la elezione sua credendo aiutare gli amici suoi e gastigare i nimici e gli adversari suoi, lasciò ogni altra speranza per minore, e attese all'altezza di costui" 88. Qualche neo aveva scorto perfino il devoto Nicola da Butrinto già nei primi giorni dell'impresa italiana 89, e per Giovanni da Cermenate Enrico sapeva già esattamente chi lo avrebbe appoggiato e chi osteggiato 90.
Guido della Torre a detta di tutti i cronisti fin dall'inizio reagì come un leone in gabbia, tentando invano di imporre nello schieramento che capeggiava la diffidenza, - più, quasi una premonizione - sul come sarebbero andate le cose qualora non si fosse osteggiata risolutamente la discesa di Enrico. Nemmeno Guido però dimostrò quel carattere coerente che avrebbe voluto avessero i suoi amici. L'incertezza sua e dei guelfi permise il tranquillo avvicinarsi di Enrico 91; pur temendo che la venuta dell'imperatore significasse la perdita della signoria su Milano non si decise a prendere le armi, fino al punto di cadere ai piedi di Enrico, "come uomo incantato seguitò il contrario del suo volere" 92.
Ed in generale Enrico rappresentò un segno di contraddizione 93, per l'irrisolta chiarificazione degli ambiti rispettivi di cui dicevamo più sopra. Dino Compagni è tutto dalla sua parte; eppure descrive con accenti di stima re Roberto anche quando si prepara ad ostacolare l'azione imperiale con mezzi poco leali 94. Albertino Mussato, che lo stesso Enrico "singulari amore diligebat" 95, pur concedendo agli argomenti di Rolando da Piazzola, è costretto a metterla sul piano dei principi: l'imperatore ha fatto male sì, ma "male regi suggestum", ed in fondo delle conseguenze delle sue decisioni in danno dei padovani era "nescius rex" 96. Infine l'estremo tentativo di conciliazione: obbediamo alla funzione imperiale, non al cattivo imperatore: "Quid abolere imagines aquilarum?... favete semper ius, etiam iniquo sub rege. Ius quippe constans, et immortale; rex mobilis, mortalisque, ut verni flores decidunt, evanescit" 97. L'invito che il Mussato rivolge ai suoi concittadini è di quelli che tutti condividono sul piano ideale, e pragmaticamente rifiutano: ed infatti massicciamente il popolo padovano segue Rolando: "e muris pictas aquilas diripuere" 98; allo stesso modo a Firenze più tardi il rito insieme propagandistico ed apotropaico si ripete: "L'aquile levarono dalle porti, e dove erano intagliate e dipinte; ponendo pena a chi le dipignesse, o le dipinte non ne spegnesse" 99.
Speranze e diffidenze non ebbero modo di sfociare in aperto e forte contrasto fino agli inizi del 1311. Il 23 ottobre 1310 Enrico è a Susa, e dopo due mesi a Milano dopo esser passato per Torino, Asti, Vercelli, Novara. La decisione di andare a Milano, oltre l'aneddoto raccontato dal Compagni, era dettata dalla consapevolezza che in quella città si giocava veramente la partita decisiva per il controllo dell'intera Italia del nord 100. Ed effettivamente la dedizione di Milano "altera Roma", almeno a detta del Mussato, "regis famam auxit" 101. Nella data fatidica del 6 gennaio del nuovo anno il re di Germania viene incoronato re dei Romani a Milano con la (una) corona ferrea. Ed ha scelto la basilica di S. Ambrogio, "inspectis libris et chronicis antiquis", invece di quella monzese, per marcare che è pacificamente in Milano, mentre suoi predecessori non avevano potuto farlo perché nemici della città 102. Entusiasmi e sospetti avevano trovato fino a questo punto un equilibrio, enfatizzato con acume da Enrico nella pubblica concordia milanese: "in platea Communi ante Sanctum Ambrosium, parata sede decenti, vocatis omnibus civibus et forensibus, ipse in sede regali sedens, et ad pedes suos praedictos simula habens, unus iurisperitus de mandato suo surrexit ostendens populo, quare venerat de suis partibus satis pulchre, et quomodo suae intentionis erat nullam partem tenere, ubique ponere pacem, omnes expulsos introducere, et talia plura, quae populus cum magnis lacrymis prae gaudio audiebat..." 103. Erano molti quelli che avrebbero potuto sottoscrivere allora le parole del Compagni: "La sua vita non era in sonare, né in uccellare, né in sollazzi, ma in continui consigli, assettando i vicari per le terre, e a pacificare i discordanti" 104.
A squilibrare i rapporti provvide una questione sorta immediatamente circa la donazione da fare all'imperatore da parte della città. L'idea di un donativo nacque spontanea, sostiene l'interessato Nicola di Butrinto 105, ma risulta scarsamente attendibile. Come si svolse la discussione è variamente riportato, ma si può riassumere così: Guglielmo da Pusterla propone la somma di quarantamila fiorini e Matteo Visconti si dice d'accordo; un altro ne aggiunge diecimila a favore della regina; infine Guido Torriani propone la splendida cifra di centomila fiorini. A questo punto pullulano le interpretazioni. Guido offriva di più perché ricca era Milano, e povero l'imperatore 106. Qualcuno tra i consiglieri di Enrico sostiene che l'ha fatto apposta, per sobillare il popolo, "ut omnino vel rebellarent, vel gratiam ad eum perderent"; altri che Matteo all'opposto voleva ingraziarsi il popolo; Nicola di Butrinto e tutti i "citramontani" badano al sodo, e preferiscono apertamente l'offerta di Guido, "cum sciremus regem et nos omnes satis indigere" 107. Al Ventura le cose erano arrivate in maniera diversa, forse più sostanziale: era stato lo stesso imperatore a sollecitare la donazione: "Tunc voluit habere florenos centum milia auri, quos eidem dederunt inviti" 108.
Seguì una lunghissima serie di atti nominalmente pacificatori, in realtà diretti a razionalizzare il potere imperiale nell'alta Italia: si moltiplicarono così le nomine di vicari regi in molte città ed i proclami di cessazione delle ostilità, che avrebbero dovuto riaprire le porte della patria a tutti i fuorusciti. Non tutte le operazioni andarono a buon fine, come si è visto, e ben presto la situazione tornò turbolenta come prima. Costretto ad allontanare da Milano tanto il Visconti quanto il della Torre, Enrico poté solo assistere impotente alla ribellione via via di Crema, Brescia, Cremona, Reggio, Parma e Lodi. Diversi tentativi diconciliazione fecero rientrare molti contrasti, ma non poterono recuperare Brescia e Cremona.
Perché la ribellione? Nessun cronista dà una spiegazione esplicita e saldamente motivata. Si dovrà allora credere che, dopo un'iniziale attesa, ci si fosse resi conto che l'azione del Lussemburghese non avrebbe potuto essere che marginale, ed il suo ruolo né più né meno diverso da quello di una delle già tante pedine sulla scacchiera. Il coordinamento "guelfo" o "ghibellino", per quel che si poteva concretamente realizzare, risultava più importante del riferimento imperiale.
A quel punto l'imperatore abbandona il ruolo di arbitro. Il tetragono Compagni sosteneva che la decisione di schierarsi - che del resto dalla sua specola tutta fiorentina ritardava considerevolmente - si doveva imputare al comportamento dei guelfi, che precedentemente l'imperatore aveva addirittura favorito 109; comunque era già molto per lui ammettere che si era schierato. L'Antegnati invece pensava che già tutto facesse parte di un piano nella mente dell'imperatore fin dall'inizio; in realtà Enrico era sempre stato uomo di parte: spirito conciliativo, propositi di giustizia, tutto era stato presentato ad arte, perfino la pietà religiosa, per carpire la fiducia e vibrare il colpo mortale alla parte avversa 110, "quia in animo conceperat ubique gelfos et fideles ecclesie delere" 111.
Che cosa normalmente significassero le parti a Milano è detto chiaramente da Giovanni da Cermenate: "nam quae hactenus nobilium pars nominata est, nunc Gibellina appellari coepit, alia vero Guelpha, quae primum pars populi, deinde Turriana fuit" 112. Enrico si appoggiò alla parte "nobiliare", come riconosce apertamente il cronista milanese 113, e cessando di mostrarsi superiore ai conflitti vendette - a caro prezzo - tutte le magistrature possibili 114. Era un nuovo espediente per rendere più efficace il controllo della regione, ma invischiava automaticamente l'imperatore nelle questioni cittadine, lo obbligava a farsi identificare in una "parte": l'immagine del signore della giustizia cedeva agli interessi specifici, e solo la giustizia distingue dal tiranno e legittima il regnante 115. Ne trassero immediate conclusioni Antonio da Fissiraga e Simone Avvocati, che si convinsero di aver riposto in Enrico speranze immotivate, ed il medesimo Giovanni da Cermenate ammette candidamente che "neque enim multum a vero aliena erat eorum opinio" 116.
A questo punto si rivela più che mai evidente come l'unica categoria di saggio politico nell'Italia padana degli inizi del Trecento sia quella della "tirannide" 117; perché Enrico imperatore, invocato in Italia come risolutore delle tirannidi, diventa improvvisamente un tiranno! Anzi, si rivela tiranno 118. L'identificazione della tirannia con il ghibellinismo è fatto più tardo, anche se non di molto, e quasi esclusivamente fiorentino 119, ma certo ad orientare le opinioni in tal senso la vicenda di Enrico aveva pesato non poco. Dopo il tumulto milanese le dicerie popolari chiamavano Enrico spregiativamente "impregnator" 120 invece di "imperator"; ma piuttosto altre, riportate dal Mussato, sostenevano: "regem in tyrannum versum facultates populorum dissipare, partiarium se palam ostendere; Teotonicorum rabies Francorumque insolentias in Latinos insanire" 121. L'Antegnati scriveva le sue note per mettere in guardia i Lombardi dal ricadere nello stesso errore: "Si prudentes ea que scripta invenerunt attente prospexerint et animo reportaverint non forte in posterum sub iugo et potencia agresti generis hominum, imo verius quodammodo inhumani, Theotonicorum, Wandalorum et Umgarorum crudeliter iruent, sed pocius eisdem totis viribus resistendo similem vitabunt iacturam" 122, riprendendo pari pari una espressione che ben prima di lui era stata adoperata per Federico I! Non solo un tiranno come gli altri, ma anche più odioso perché forestiero. Quando Enrico si avvicina, i fiorentini "in tutto si scopersono nimici dello Imperadore, chiamandolo tiranno e crudele" 123, e si badi che per il Compagni tirannide significa fonte di ogni discordia ed avversione al "popolo" 124. Il Mussato fa sempre il possibile per difendere l'imperatore, e riporta l'opinione di coloro che scusavano Enrico: "regem non corruptum, sed domesticis suis violatum aiebat" 125, ma questa scusa demolisce implacabilmente l'Antegnati accumulando una lunghissima serie di fatti incontrovertibili 126.
Il convincimento di avere di fronte un altro despota implica la convinzione di dover rispondere nel solito modo: "Crema Cremonaque viciniores, pulsis vicariis praesidiisque regiis iugum excussere" 127. Dove l'uso di quest'ultima espressione è ugualmente estremamente significativo. Riccobaldo l'aveva adoperata più volte: per il popolo ferrarese che con l'aiuto della Chiesa romana si era liberato dei signori d'Este: "iugum tyrannorum a cervicibus suis excussit" 128, per il popolo modenese che si liberò di Azzo VIII d'Este: "tyrannidem Azonis perhorrescens, cum omnibus esset sevus et terribilis, a cervicibus eorum iugum excussit" 129. Se si trattava ormai di uno stereotipo 130, tuttavia lo era di un fenomeno organicamente legato alla tirannia. Insomma Crema e Cremona considerano l'imperatore alla stregua di un altro dominus, e si comportano di conseguenza. Di ciò si rende conto perfino l'imperatore, che in un discorso riportato dal Mussato, che era presente 131, riconosceva: "En iam Longobardiae Italiaeque civitates iustissimis accensae iracundiis (si vulgata fidem teneant) nos ut famosos tyrannos detestantur e fugiunt" 132. Questo era l'unico argomento di Guido della Torre che parlava per i cremonesi: gli effetti delle azioni di Enrico sono quelli tipici di un tiranno: "onerosum vicarii iugum, populum pauperie inediaque profligatum, impotentem contributionum, quas Caesar ipse iam conferendas decreverat, praeterea ipsum Caesarem (quod intolerabilius erat) Teotonicos in Latinos dimissa licentia sinere insanire" 133. Anche le reazioni sono analoghe: alle contribuzioni forzose si può opporre solo il mugugno: "cuius rei causa, nobilium atque popularium, sed fortius mediae plebis murmur in regem surgit..." 134; a Milano nei riguardi dell'imperatore, come a Ferrara nei riguardi del tiranno di casa: "Ex hiis orta est est infamia a populo vulganti non tales exactiones factas esse temporibus Salinguerre" 135. Ed analogamente a soffrirne maggiormente sono le popolazioni del contado 136. Di più: Enrico è un moltiplicatore di tirannidi, vecchie e nuove: "Cremonenses... hunc non regem, sed tyrannum divulgabant, eum iam tyrannides in urbibus exercendas decreverit, antiquatos tyrannos titulis imperialibus approbans, alios ad libitum dominantium constituens, deiici populos, quos introduci fecerat, iubens et pellentes subsidiis fovens, totumque parti Gibellinae deditum, Guelfam in Lombardiae partibus opprimens..." 137. A Padova, in preda all'incubo Can Grande - "in tyrannide natum" 138 -, non si poteva che essere d'accordo: "Puduit ne hunc Canem virum nefarium mutato sodalitio Vincentiae et Paduae in pace degentium, vicarium Vincentiae constituere... Non quippe puduit o cives... ut vos hic Canis in tyrannidem trahat..." 139. Nicolò Bonsignori, vicario imperiale, agisce "Tyranni more", dice il non sospetto Giovanni da Cermenate; per opera sua "perdita est diu desideratae libertatis spes" 140. Si veda tutto il discorso - riportato dal cronista milanese - del Bonsignori, che esplicitamente assimila se stesso ai signori passati, e che, giusto come si divulgava dei tiranni, rivendica l'assoluta libertà di decisione, "ut nullis tenear legibus" 141, adoperando una espressione del linguaggio tecnico, non ingenuo, ma profondamente alterata semanticamente 142 e già divenuta proverbiale: "Tyrannis omnibus legibus superior est" 143.
L'azione violenta contro Cremona, dove fra l'altro si era rifugiato Guido della Torre, e poi quella contro Brescia, alienò ad Enrico ogni simpatia dei guelfii guelfi, che da allora gli divennero fortemente e senza speranza ostili. Se la dedizione di Milano nelle mani imperiali aveva suscitato grandi simpatie, "Hoc Cremonae excidium finitimos undique conterruit. Caesar truculentus asseritur" 144. Dov'era finito il re pacifico, superiore alle parti? Chi poteva insistere ormai ancora nelle speranze, se non chi era del tutto privo di altre speranze 145? E non si trattava solo della repulsione indotta dalla ferocia del comportamento; era stato piuttosto un grave errore politico prima di aver permesso che il vicario imperiale agisse tanto brutalmente da spingere i cremonesi alla ribellione, come notava Nicola di Butrinto, che personalmente aveva tentato invano di mettere in guardia l'imperatore 146, ma soprattutto poi di mostrarsi così feroci nella punizione. L'errore è stigmatizzato dal Cermenate: Enrico ha scosso la sua immagine di re clemente; non ha tenuto conto del rilievo della sua azione presso l'opinione pubblica; la perdita di credibilità si ripercuote su tutti i suoi sostenitori 147. Ma questa volta Enrico aveva deciso da solo, contro il parere dei suoi consiglieri, di quelli papali e della stessa regina 148. Il nuovo Federico ha mostrato il suo vero volto, diceva Guido della Torre, e puntigliosamente riportava lo sconcertato Mussato: "Caesaris partiariae mentis indago significat in singulis civitatibus, et locis vicarios gibellini nominis institutos; parti Ecclesiae iam timendum esse, innovatum Friderici scisma vetus, et demum consilium capiendum ab amicis sociisque Longobardis et Tuscis, et respectu habito respondendum" 149. Lo schieramento guelfo rinsaldava le fila nel ricordo comune dell'esecrando Federico II: Padova reagì all'avversa sentenza di Enrico nei riguardi della città "adhuc acceptae cladis a Friderici de Stoph infande tyrannide memoria non abolita" 150. Non sarà allora notazione peregrina ricordare che il Ferreto, proponendosi di scrivere delle vicende italiane a partire da Enrico VII, sceglie consapevolmente di avviare il racconto dalla morte di Federico II 151. Non si tratta di sottolineatura delle tinte, perché effettivamente la questione di fondo riguardava l'irrisolto rapporto ideologico tra libertates cittadine ed impero, ed affondava le sue origini - anche per quel che riguardava la storiografia 152 - al tempo del Barbarossa 153.
Va verso Brescia Enrico, e trova solo manifestazioni ostili: "agniscisne nunc quid egeris, bone rex... hoc tibi soli imputes", infierisce il cronista milanese 154.
Finalmente Enrico parte per Genova, "composito statu urbium Lombardiae ac Marchiae Trivisinae, cum pax esset ubique eorum locorum", dice Riccobaldo chiudendo gli occhi 155, ed a conclusione di un resoconto che, senza lodare mai o biasimare l'imperatore, ha visto però solo la punizione dei guelfi, i signori - Guido della Torre, Tebaldo Brusato -, e le città, soprattutto Padova, costretta a ritirarsi da Vicenza, i cui abitanti finalmente sono "a longinqua Paduanorum oppressione liberi" 156. Lascia la Lombardia Enrico "parendoli avere perduto assai tempo", nota il Compagni 157, con l'animo di colui che pensa che la questione principe da sanare sia quella della sua Firenze.
Invece non si risolve proprio nulla, anzi la discesa verso Roma, dopo le tappe genovese e pisana, e l'incoronazione non a San Pietro, saldamente tenuta dagli angioini, ma a S. Giovanni in Laterano il 29 giugno 1312 testimoniano delle gravi e crescenti difficoltà dell'imperatore. Già mentre l'imperatore passa l'inverno a Genova si vanifica quanto aveva fatto Enrico in Lombardia 158. Ecco il consuntivo dell'azione del "rex pacificus" nelle parole del Mussato: "Divisi igitur Longobardi, partium accensi furoribus, quibus poterant bellorum studiis, alternisque proeliis, ferro et igni sibi populisque acerbe adversabantur". Non molto diverso il panorama rispetto a quello fornito dal Ferreto all'inizio dell'impresa: sono partigiani dell'impero Torino, Novara, Vercelli, Milano, Bergamo, Como, Brescia, Verona, Vicenza, Mantova, Modena, Lodi, Piacenza; contro stanno Alba, Asti, Alessandria, Pavia, Parma, Reggio, Cremona, Padova, Treviso 159. Ancora più duro è il discorso di Rolando da Piazzola ai concittadini: "Longobardia terra ferax, nunc inculta ad silvestres comparabilis vastitates. Et qui incolae nobilium oppidorum? Incolae nempe tyranni veteres, vicariorum Imperii induti vocabulis: his hodie Longobardiae reliquiae consumuntur" 160.
Neppure la risalita da Roma verso nord servì a migliorare le cose. Mentre Enrico vaga in Toscana, tra parziali successi e grandi sconfitte, e già ai più avveduti appare chiaro il fallimento dell'impresa 161, il Mussato scrive amaramente la rubrica: "Civitatum Longobardiae status et conditiones. Interea Longobardi atroci, assiduoque bello collidentes, urbium moeniis, ut dudum ante, nullis immutationibus se continuere" 162. Esattamente tutto come prima.
Infine la scarsezza delle forze disponibili e la morte precoce, chi dice per cause naturali, chi per veleno, il solo Riccobaldo per un eccesso di continenza 163, non gli permisero né di vincere la resistenza del comune fiorentino né di contrastare efficacemente re Roberto, dichiarato ribelle all'impero e vanamente chiamato a presentarsi al tribunale imperiale. La sentenza del 26 aprile 1313 è "l'affermazione più energica dell'universalità dell'impero che sia mai stata fatta da un imperatore tedesco" 164, ma registrata dai cronisti alla stregua di un qualunque altro episodio di contrasto tra l'imperatore ed un avversario, grande o piccolo. In fondo, nell'impero di Enrico VII si poteva ormai credere solo per fede, per scelta ideologica, giuridica, filosofica, o solo latamente intellettuale; in fondo disperatamente. Enrico VII si avviava a divenire "il simbolo di un'esigenza di riordinamento universale" 165 - come non ricordare il suo ruolo nella genesi della Monarchia 166? -, ma niente più di un simbolo.
L'imperatore aveva ottenuto qualche successo iniziale, ma il bilancio complessivo era fallimentare 167. Riccobaldo che ne traccia un ritratto finale, per quanto vedesse in lui null'altro che bene, al punto da paragonarlo a Teodosio, concludeva realisticamente che la meteora era caduta, ed insieme ad essa i timori guelfi e le speranze ghibelline 168. Chi ha speranza aggiunge al suo favore quello divino; il deluso non può che commentare che così va il mondo: in fondo più delle volontà conta la fortuna 169. Primo è lo stesso Enrico a lamentarsi pateticamente: "fortuna non arrisit sibi in Italia, et omni die timebatur de statu suo, et quia pauper, et quia infinitos habens rebelles..." 170; infine viene l'epitaffio del Mussato: "hic quoque Henricus foecunde pacis vexillo in Italia auspiciis ductus Ecclesiae, quae voluit, obtinuit simul arridente Fortuna. Verum mutatis velis, versis ad oppositum gubernaculis, adverso sidere soluta classis profundum oppetiit" 171.
Che una storiografia così "interpretativa", quale si rivela quella che abbiamo passato seppur rapidamente in rassegna, non trovi posto nella tipologia proposta dal Guenée 172 non deve meravigliare più di tanto chi si ponga oggi alla riflessione serena su di un "genere", quale quello delle cronache italiane nei primi decenni del Trecento, tanto refrattario ad essere incasellato quanto vivace ed incline a districare i nodi della storia contemporanea.