AM | «Archivio Muratoriano» | |
An. Berg. | Annales Bergomates ed. O. Holder-Egger, MGH SS 31 325-35, con rimando a pagina e riga | |
An. Brix. | Annales Brixienses ed. L. Bethmann, MGH SS 18 875-80, con rimando a pagina e riga | |
An. Cr. | Annales Cremonenses ed. O. Holder-Egger, MGH SS 31 3-21, con rimando a pagina e riga | |
An. Plac. Gib. | Annales Placentini Gibellini ed. G. Pertz, MGH SS 18 457-581, con rimando a pagina e riga | |
An. S. Just. | Annales S. Iustinae Patavini ed. Ph. Jaffè, MGH SS 19 148-93, con rimando a pagina e riga | |
Astegiano | L. Astegiano Codex diplomaticus Cremonae Torino 1896-99 (Monumenta Historiae Patriae s. 2 22) | |
Albertus de Bezanis, vedi Bezani | Alberti de Bezani Cronica Pontifcum et Imperatorum ed. O. Holder-Egger, MGH SS in usum scholarum, Hannover-Leipzig, Hahn 1908, con rimando alla pagina | |
Iohannes de Cermenate, vedi Cermenate | Historia Iohannis de Cermenate, ed. L. A. Ferrai, Roma, Istituto Storico Italiano 1889 (FISI 2), con rimando alla pagina | |
Chr. Est. | Chronicon Estense cum additamentis usque ad annum 1478 edd. G. Bertoni-E. P. Vicini, RIS2 15/2, con rimando a pagina e riga | |
Chr. Parm. | Chronicon Parmense ab anno MXXXVIII usque ad annum MCCCXXXVIII ed. G. Bonazzi, RIS2 9/9, con rimando a pagina e riga | |
Chr. Reg. | Chronicon Regiense RIS 18 5-98 | |
Iohannes Codagnellus, vedi Codagnello | Iohannis Codagnelli Annales Placentini ed. O. Holder-Egger, MGH SS in usum scholarum, Hannover-Leipzig, Hahn 1901, con rimando alla pagina | |
Dino Compagni, vedi Compagni | Dino Compagni Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi ed. I. Del Lungo, RIS2 9/2, con rimando a libro e capitolo | |
Compendium | Riccobaldus de Ferraria Compendium Romanae Historiae ed. A. T. Hankey Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo 1984 (FISI 108), con rimando alla pagina | |
Compilatio | Riccobaldus de Ferraria Compilatio Chronologica RIS 9 193-262 | |
Const. | MGH LL Constitutiones et Acta Pubblica Imperatorum et Regum IV,1, ed. J. Schwalm, Hannover-Leipzig, Hahn 1906 (=1981) | |
Cortusi | Guillelmi de Cortusii Chronica de novitatibus Padue et Lombardie ed. B. Pagnin, RIS2 12/5, con rimando alla pagina | |
ED | Enciclopedia Dantesca | |
Ferreto | Ferretus Vicentinus Historia rerum in Italia gestarum ed. C. Cipolla, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo 1908-14 (FISI 42-43), con rimando al volume ed alla pagina | |
Gesta | Gesta Federici I imperatoris in Lombardia auctore cive Anonimus Mediolanensis, ed. O. Holder-Egger, MGH SS rerum Germanicarum in usum scholarum, Hannover, Hahn 1892, con rimando alla pagina | |
Greg. Mag. Dial. | Gregorii Magni Dialogi ed. U. Moricca, Roma, Istituto Storico Italiano 1924 (FISI 57), con rimando a libro, capitolo e pagina | |
HB | J.-L.-A. Huillard-BrÈholles Historia Diplomatica Friderici Secundi Parisiis, Plon 1852-61 (=Torino, Bottega d'Erasmo 1963) | |
Iuven. | Juvenalis Saturae edd. P. De Labriolle - F. Villeneuve, Paris, Les Belles Lettres 1957 | |
Livius, vedi Titus L. | Titus Livius Ab Urbe condita edd. R. S. Conway - C. F. Walters - S. K. Johnson - A. H. McDonald, Oxford, Clarendon 1914-65 (Scriptores classicorum bibliotheca oxoniensis) | |
LL | Leges | |
Jacobus Malvecii, vedi Malvezzi | Jacobi Malvezzi Chronicon Brixianum RIS 14 776-1004 | |
Martin. | Martinus Oppaviensis Chronicon Pontificum et Imperatorum ed. L. Weiland, MGH SS 22 397-474, con rimando a pagina e riga | |
MGH | Monumenta Germaniae Historica | |
Milioli | Alberti Milioli notarii regini Chronica Imperatorum ed. O. Holder-Egger, MGH SS 31 580-668, con rimando a pagina e riga | |
Morena | Ottonis Morene et continuatorum Historia Frederici I imperatoris ed. F. Güterbock, MGH SS rerum germanicarum in usum scholarum, Berlin, Weidmann 1930 | |
Mussato | A. Mussato Historia Augusta Venezia, Pinelli 1636, con rinvio a capitolo e rubrica | |
Mussi | Johannis de Mussi Chronicon Placentinum RIS 16 447-584 | |
NA | «Neues Archiv der Gesellschaft für altere deutsche Geschichtskunde» | |
NRS | «Nuova Rivista Storica» | |
Orosius, vedi Paulus O. | Paulus Orosius Le Storie contro i pagani a cura di A. Lippold, Verona, Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori 1976, che riproduce sostanzialmente l'ed. Zangemeister con qualche miglioramento | |
PC | Petrus Comestoris Historia Scholastica PL 198 1054-722 | |
PD HL | Paulus Diaconus Historia Langobardorum ed. G. Waitz, MGH SS rerum germanicarum in usum scholarum, Hannover, Hahn 1878 (=1978), con rimando a libro e capitolo | |
PD HL Cont | Paulus Diaconus Continuatio Romana ed. G. Waitz, MGH SS rerum langobardicarum et italicarum saec. VI-IX, Hannover, Hahn 1878 (=1964), 200-03, con rimando ai paragr. | |
PD HR | Paulus Diaconus Historia Romana ed. A. Crivellucci, Roma, Istituto storico italiano 1914 (FISI 51), con rimando a libro e capitolo | |
PL | Patrologiae Latinae Cursus Completus | |
Pomerium | Riccobaldus de Ferrara Pomerium Ravennatis Ecclesie RIS 9 105-92, la sola parte edita; altrimenti rimando alla ed. che vado costituendo | |
QuF | «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken» | |
RH | «Revue Historique» | |
RIS | Rerum Italicarum Scriptores | |
RSI | «Rivista Storica Italiana» | |
Salimbene | Salimbene de Adam Cronica ed. G. Scalia, Bari, Laterza 1966 | |
Sicardo | Sicardi episcopi Cremonensis Cronica ed. O. Holder-Egger, MGH SS 31 78-183, con rimando a pagina e riga | |
SS | Scriptores | |
Tolosano | Magistri Tolosani Chronicon Faventinum ed. G. Rossini, RIS2 28/1, con rimando a pagina e riga | |
Ventura | Memoriale Guilielmi Venture RIS 11 153-268 | |
Villani | Croniche storiche diàGiovanni, Matteo e Filippo Villani..., corredate... da note filologiche di I. Moutier...., Milano, Borroni e Scotti 1848, con rimando a libro e capitolo |
La storia dei cronisti, annalisti, storici - come li vogliamo
chiamare - del Medioevo, soprattutto in Italia, riserva ancora - e
riserverà per lungo tempo - a chi la voglia indagare con
pazienza una messe nutritissima di gioiose sorprese. Non si tratta
naturalmente delle nuove "letture" di un testo noto, che non
mancheranno mai - almeno me lo auguro; le novità cui alludo di
solito riguardano propriamente il testo - che viene reso sempre
più comprensibile e comunque migliorato -, e qualche volta in
generale la storia della cultura e della tradizione delle fonti,
quando si ristabiliscano le reali trasmissioni del testo di un cerrto
autore Note1; ma possono anche
consistere - ed è il caso nostro qui - in veri e propri
accrescimenti del nostro forziere di conoscenze.
Il bagaglio cronistico relativo a Cremona conosce due esponenti
fulgidissimi, Liutprando e Sicardo, e poco altro. Aggiungo una
ulteriore, più modesta, ma rappresentativa e faconda voce,
che, curiosamente non conosce né il primo né il
secondo.
Il codice segnato M,I,7 della Biblioteca Capitolare di Busto Arsizio Note2 (cartaceo del secolo XV in., mm. 300x220, cc. 158, con due numerazioni, una in cifre romane ed una in cifre arabiche, entrambi posteriori al testo, scrittura umanistica su due colonne) contiene (10r-158v) un esemplare del Pomerium Ravennatis Ecclesie di Riccobaldo da Ferrara. Impegnato da anni all'edizione critica di quell'opera, ero destinato prima o poi ad incontrare anche quel manoscritto, e l'incontro è stato sommamente proficuo. Oltre al Pomerium il codice contiene anche (1r-9r) il trattatello De potestate papae del vescovo di Reggio Emilia (1302-1312) Enrico da Casalorciis, nativo di Cremona Note3. Il nostro testimone, che non riporta quel titolo, ma che comincia ex abrupto «Data mihi omnis potestas in celo et in terra...», contribuisce a rendere più sicuro il testo del trattato: ad esempio là dove l'edizione Scholz parla di un'improbabile «vilitatem iurisdictionis temporalis», il codice di Busto ha un chiarissimo «utilitatem», e là dove l'edizione Scholz riporta «non est indigens habere plura capita», il testo di Busto dice con ben altra credibilità che è «conveniens». Ma lasceremo ad altri il dovere di occuparsi di questo testo.
Fin dalla prima pagina il codice dice la sua provenienza cremonese
Note4: il trattatello è di
«H[enricus] Note5 de
casalorciis de cremona decretorum doctor licet indignus postea
propter hoc factus reginus episcopus». Ma che il manoscritto sia
opera di un cremonese lo dice ancora meglio e con maggiore evidenza
il Pomerium! Il cui testo non è pura e semplice
trascrizione del lavoro riccobaldiano, ma quasi un'altra opera, tante
sono le inserzioni, aggiunte, postille di cui il testo del ferrarese
è stato infarcito. In generale si tratta di una miriade di
micro-inserzioni, di una o due parole. Se nel testo di Riccobaldo
è un «imperator», il postillatore aggiunge il nome
proprio, e magari qualche altra notizia genealogica; se l'imperatore
in questione è, ad esempio, un Enrico, il postillatore
aggiunge l'ordinale; se si nomina una città, se ne dice la
regione di appartenenza... Ecco un chiaro esempio:
Herodes rex Iudee, qui ante bellum Actiacum a Cleopatra eum odio habente missus fuerat cum copiis in Arabiam, ad Cesarem venit, qui erat apud Rhodum. Cesar nec victum reputabat Antonium, cum ei superesset Herodes, periculis occurrens Herodes, deposito habitu regio in privato cultu stetit ante Cesarem...
Herodes Escalonita rex Iudee Antipatris filius, qui ante bellum Actiacum a Cleopatra Antonii uxore eum odio habente missus fuerat cum copiis in Arabiam, ad Cesarem Octavianum venit, qui erat apud Rhodum. Cesar Octavianus nec victum reputabat Antonium, cum ei superesset Herodes, periculis occurrens Herodes, deposito habitu regio in privato cultu stetit ante Octavianum Cesarem...
Non sempre, ma in diverse occasioni, le aggiunte sono evidenziate
a margine da manine coll'indice puntato, i normali notabilia,
e dalla notazione «adicio», in due occasioni «adicio
G.»; in un caso i notabilia segnano esattamente l'inizio
e la fine dell'aggiunta; in un altro a margine si trova scritto:
«adictio durat usque ad tale signum Ç», segno che
però non si ritrova poi alla fine dell'aggiunta.
E quel «G.» ad un certo punto si disvela (aggiunta
61):
audivi a patre meo sene, ego Gasapinus de Antegnatis cremonensis, qui iuvenis XV annorum tunc temporis, quando imperator de Alamania Cremonam proficisebaturus erat, quod eundo obviam cum aliis Cremonensibus imperatori qui aplicuerunt ad flumen Clesii, vidit quatuor milia militum in ipso equitatu...
Non si pensi che lo «iuvenis XV annorum tunc temporis»
sia il Gasapino medesimo: altrimenti, poichè questa nota
è immediatamente successiva al resoconto della battaglia di
Cortenuova, da riferire quindi a periodo attorno al 1237, si dovrebbe
pensare Gasapino di conseguenza nato attorno al 1222. Ma data di
nascita questa quasi impossibile da accettare, perchè la
notizia più recente fornita dal nostro postillatore è
relativa alla morte di Filippo IV di Francia (41), avvenuta il
29 novembre 1314 Note6 ed il nostro
autore si mostrerebbe quasi centenario Note7
. Certo cosa non impossibile, ma non è affatto necessario
contorcersi per dimostrarla infine accettabile: il quindicenne di
allora non era Gasapino, ma il padre, che da vecchio
(«sene») raccontò poi quei fatti al figlio.
Oltre a ciò, di Gasapino sappiamo unicamente quello che di lui
si dice nel Chronicon Parmenseàriferito all'anno
1308:
Item eodem mense augusti, die lune quinto, facti fuerunt rectores Parme, seu potestates, quidam judex de Placentia, seu de districtu, qui venerat cum dicto capitaneo Parme pro suo judice, cui nomen erat dominus Jacobus de Stradella, et quidam alius judex de Cremona, de illis qui venerant et steterant cum dicto domino Zifredino de la Ture, cuius nomen erat dominus GaÁapinus de Antignatis, qui ambo communiter reserunt usque ad aventum subsequentis potestatis; sed nichil timebantur, ita quod non potuerunt prohibere infinitas robarias, violentias, extorsiones, furta, incendia et homicidia et alia mala infinita, que cotidie et indiferenter fiebant in civitate et extra et fuerunt facta usque ad aventum subsequentis rectoris; et habuit quilibet pro suo salario sexaginta libras imperialium, et habiti fuerunt et steterunt loco... .
Note8 Un giudice quindi, vicino ai Torriani, perlomeno di sicuro a Goffredino, capitano generale della lega guelfa, avversario di Giberto da Correggio, al quale venne temporaneamente affidato il governo di Parma e che da Parma si allontanò il 3 agosto 1308 Note9. Gasapino rimase dunque quasi al suo posto in qualità di podestà ad interim, come al suo seguito era venuto. Il che spiega la consuetudine con il mondo dei giuristi, di cui diremo tra poco; come spiega il fatto che gli fosse giunta tra le mani una copia del Pomerium di quel Riccobaldo che pure aveva fatto parte, almeno una volta in qualità di notaio a Reggio - non certo lontano -, di una famiglia podestarile Note10 , che era amico di quel Giovannino giudice reggiano che era stato della "famiglia" di Guido da Suzzara, e che a Ravenna nel 1300 era giudice ed assessore del podestà Lamberto da Polenta Note11; nulla di più facile che Riccobaldo fosse rimasto in qualche modo in contatto con quegli ambienti. Altro disgraziatamente dell'Antegnati non conosco.
Il suo nome non figura nell'elenco degli ambasciatori che vanno
incontro ad Enrico VII per implorarne la pietà Note12,
né nella lista dei soggetti alla sentenza del 10 maggio 1311
Note13, per quanto egli ci dica di
essere stato uno dei componenti di quella ambasciata ed uno dei
gravemente colpiti dai provvedimenti di Enrico VII. Certo doveva
essere uomo di cultura. Se si deve trovare un paragone alle
efferatezze di Ezzelino da Romano pensa a Silla e Nerone (70).
Là dove Riccobaldo riporta orrendamente mutilato un brano di
Giovenale, Gasapino restituisce quasi per intero il testo poetico di
Giovenale, segnando oltre tutto con accuratezza la fine dei versi con
una barra diagonale e spesso andando a capo con la maiuscola:
Claudius audi
que tulerit. Dormire virum cum senserat uxor,
ausa Palatino tegetem preferre cubili,
sumere nocturnos meretrix augusta cucullos,
intravit calidum veteri centone lupanar
ancilla comitata non amplius una,
ostenditque tuum, generose Britanice, ventrem.
excepitque viros blande atque era poposit;
titulum mentita Licisse
et lassata viris nundum saciata recessit,
tristis
adhuc ardens rigide tintigine vulve.
Claudius audi
que tulerit. Dormire virum cum senserat uxor,
ausa Palatino tegetem preferre cubili,
sumere nocturnos meretrix augusta cutullos,
linquebat comite ancilla non amplius una,
et nigrum flavo crinem abscondente galera
intravit calidum uteri centone lupanar
et cella vacua atque suam; tunc nuda papillis
Constitit auratis titulum mentita Licisce
ostenditque tuum, gen[er]ose Britanice, ve[n]trem.
Excipit blanda intrantes atque era poposit;
mox letione suas iam dimitente puellas
tristis abit, sed quod potuit tamen ultima cellam
clausit, adhuc ardens rigide tintigine vulve,
et lassata viris nundum saciata recessit,
obscurisque genis turpis fumoque lucerne
feda lupanaris tulit ad pulvinaris odoremà .
Note14 Conosce Gasapino anche la prima decade di Tito Livio (4; 5; 103). L'aggiunta 97 pone a questo proposito un problema. La nota fraintende Livio V,35,2: «... Ligures incolentes circa Ticinum amnem...», identificando gli Insubri con i Liguri, ed attribuendo tutto questo allo stesso Livio; ma se Livio non confonde mai Insubri e Liguri, lo fa invece Riccobaldo in un'altra opera, nel De locis Note15 : «... Liguria, que Titus Livius dicit Insubrum...», di nuovo attribuendo il tutto a Livio. Pensare che in due autori diversi ci sia il medesimo fraintendimento non mi pare possibile, e d'altra parte sospettare che l'errore derivi da una fonte comune mi è ancora più difficile da pensare. Allora credo che non si possa evitare questo bivio: o Gasapino conosceva anche il De locis - il che francamente non credo - o quell'aggiunta era già nel testo ricopiato dal nostro, e l'autore ne era lo stesso Riccobaldo. E di questa ipotesi trovo ulteriore conferma in altre note, che risalgono con tutta sicurezza a Riccobaldo; ma al Riccobaldo di una terza opera, la cosiddetta Compilatio Chronologica.Le aggiunte 77; 79; 80; 81; 83; 86,1-12 e 14 riportano alla lettera il testo che leggiamo - con le ovvie diversità di un'edizione traballante, com'è quella muratoriana (non siamo neppure certi che la Compilatio termini là dove la fa terminare l'editore...) - nella Compilatio, con qualche ulteriore apporto del nostro postillatore per quanto riguarda precisazioni su fatti e personaggi che egli evidentemente ben conosceva. E non è da escludere che anche qualche cosa d'altro sia di mano riccobaldiana, forse le tante notiziole prese da Martin Polono (eccetto sicuramente l'inserzione lunga (1), esplicitamente dichiarata tale), forse la nota su Gherardo da Camino (78), ricordato nel Pomerium e nel Compendium come «tyrannus equissimus et civilis ac tolerabilis satis» Note16. Per la spedizione di Enrico VII in Italia, sulla quale Gasapino ha informazioni di prima mano, le note di Riccobaldo si configurano come un canovaccio su cui tessere il nuovo racconto, col rischio poi di incorrere in ripetizioni, a mala pena corrette da locuzioni del tipo «sicut iam dictum est», «ut supra», «superius nominatas» (87,15-17, 29 e 35-46). Con ritocchi non sempre marginali: là dove Riccobaldo scriveva che l'imperatore lasciò la Lombardia «cum pax esset ubique eorum locorum» Note17, nel nostro cremonese si trova invece «Lombardia post eius recesum fuit in maxima guerra et discordia» (29); poi scambia i Vicentini con i Mantovani (43). Insomma Gasapino disponeva anche del De locis e della Compilatio? Certo che no: quelle note erano già nel testo ripreso da Gasapino, e vennero riutilizzate più tardi da Riccobaldo ed inserite in sue opere successive. Rimangono aperte a loro volta un'altra serie di questioni: poichè queste note non sono nel resto della tradizione, si tratta di aggiunte d'autore certo, ma posteriori, incorporatasi successivamente nel testo, o fanno parte della stesura originale, nella copia, diciamo cosÏ, di lavoro di Riccobaldo, per cui il testo "autentico" risulterebbe deficitario in tutti gli altri testimoni? E se si tratta di aggiunte successive pure e semplici, a quando le si debbono far risalire? Ed ancora: le note riccobaldiane sono quelle utilizzate nella Compilatio, in minor misura nel Compendium, ma probabilmente già nelle Historie, di cui il Compendium dovrebbe essere un sommario Note18. Ed infatti scopriamo che alcune aggiunte, che non sono né nella Compilatio né nel Compendium, e che quindi si dovrebbe pensare siano del nostro cremonese, non sono invece sicuramente di Gasapino, ma di Riccobaldo. Oltre a tutto ciò che riguarda Cremona, Gasapino tiene a registrare anche qualche cosa che spetta alla vicina Piacenza, con la quale i rapporti erano ovviamente stretti; ebbene le note su Piacenza si ritrovano (eccetto 8) pari pari (ma ridotte!!!) in Giovanni de Mussi (36,2; 38,1 Note19 ). Ricorderemo che alla lettura di altri brani del de Mussi già il Massèra era stato messo in sospetto, fino ad ipotizzare l'esistenza - poi confermata dopo la sua morte - delle HistorieàNote20 . Ma non basta: altre derivazioni evidentemente riccobaldiane - ma apparentemente provenienti da queste aggiunte cremonesi - trovo anche nel Malvezzi (87,40). Con tutta la buona volontà di questo mondo non si può pensare che il bresciano (come il piacentino de Mussi del resto) le derivasse dal codice di Busto, ed esclusivamente quelle, e niente altro! Evidentemente gli vengono anche quelle dalle Historie. In conclusione questo codice ci conserva aggiunte di Riccobaldo, da lui stesso adoperate più tardi nelle Historie, ed altrimenti irrimedibilmente perdute. L'unica certezza che si può per ora avere è che le postille di Riccobaldo, poichè si dipanano fino alla morte di Enrico VII, sono perlomeno successive al 24 agosto 1313. Per il resto la questione andrà ripresa naturalmente altrove.
Ma oltre Giovenale e il Livio comune non sembra il nostro conoscere altro dei classici. La stragrande parte delle sue aggiunte trova la fonte nell'Adversus Paganos di Orosio (7; 9,1), in Martin Polono (1; 9,2; 34; 36,1; 39; 42-44; 48,46; 72; 108-24; 126; 128-48; 150; 152; 154-94; 196-200; 202-16; 218-21; 223-25; 227-30; 234), l'Historia Scholastica di Pietro Comestore (10,1-7), l'Historia Romana (17) e l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono (20-28; 94-96; 98; 100-02), i Dialoghi di Gregorio Magno (19), o nello stesso Pomerium (10,8-10; 11; 33; 35; 70; 226). Forse conosce anche una traduzione latina delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio (12), ma la citazione sembra di seconda mano. Di un gruppo di notazioni non ho saputo ritrovare la fonte (2; 3; 6; 8; 13-16; 18; 30-32; 37; 40-41; 63; 90; 93; 217). Tutto quanto riguarda Federico I in Lombardia (45; 48,2-45) ed alla crociata (51) è desunto da i Gestaàdell'Anonimo Milanese. Non manca naturalmente la dimestichezza con opere di carattere giuridico, che dimostra dicendo di Giovanni Bassiano, Martino Gosia - dato dal nostro sicuramente per cremonese -, Azzone e Bulgaro (49,3-4); e - se è stato lui, com'è probabilissimo - ricopiando il trattato di Enrico de Casalorciis che apre il nostro codice. Conosce certo anche lettere papali, almeno alcune di Onorio III (58), la lettera di Gregorio IX con la quale il papa si difende dalle calunnie di Federico II (57) e forse una di Clemente IV (76). Il resto deriva o da raccordi banali o da conoscenze personali dirette. Per quanto riguarda l'Anonimo Milanese in particolare il nostro riapre e complica - per ora fino ad un'impossibile soluzione - la storia di quel testo. Com'è noto i Gesta vennero attribuiti dal Muratori a quel Sire Raul che risultò poi all'analisi dell'editore moderno solo un copista. L'autore sarebbe un anonimo milanese. Ma quel testo si ritrova anche in Giovanni Codagnello, con diverse, notevolissime varianti ed aggiunte attribuite dal primo editore moderno allo stesso Codagnello. Ora il testo fornito da Gasapino, per quanto indubbiamente più vicino a quello del piacentino, è per la verità a a metà strada tra i due; anzi qua e là fornisce particolari che non si ritrovano in nessuno dei due, e non di rado ne dà una lezione migliore! Non mi sono impegnato qui in un'analisi ulteriore, che sicuramente andrà fatta; mi sono limitato a fornire il nuovo testo, lasciando da parte per ora ogni questione che ne deriva. Avverto solo che, analogamente, la questione si ripropone con i Gesta di Federico Barbarossa alla crociata fatti seguire al racconto dell'Anonimo! Se ne deduce evidentemente che i Gesta Federici comprendevano sicuramente come parte integrante anche quell'appendice che l'editore moderno ha spezzato e giudicato autonoma. La questione del testo dunque dei Gesta va totalmente ripresa. Per quanto io abbia adoperato l'edizione dei Monumenta, che permette di controllare immediatamente le due "versioni", chi vorrà approfondire la questione dovrà ora fare riferimento anche alla nuovissima edizione fornita dallo Schmale Note21 , il quale, senza conoscere naturalmente le note di Gasapino, produce un testo che tien conto della versione di Codagnello (ma forse è più esatto dire in Codagnello) come di un qualunque altro testimone, non giudicandola opera a parte come aveva fatto l'Holder-Egger, e quindi confermandoci in quanto abbiamo or ora ipotizzato, ma ancora ignorando completamente la parte relativa alla crociata Note22 !
Per altre notizie il nostro attinge a ciò che a Cremona era
più normale fosse noto. Tra i personaggi famosi della sua
città menziona Gerardo di Santa Lucia, al quale si dovrebbe
una mirabolante mole di lavoro come traduttore in latino di testi di
medicina, e suo nipote Pietro, che ne continuò l'opera
soprattutto a Cremona; Giovanni Bassiano e Martino Gosia, di cui
tiene a riferire gustosi aneddoti (49), e sant'Omobono
(52).
Ma ciò che lo attrae maggiormente sono le vicende relative ai
rapporti tra Cremona e l'imperatore. Uomo di parte guelfa in una
città quasi sempre di simpatie imperiali, ci parla della
storia della sua città avvilita da Federico I, esaltata da
Federico II, soprattutto annichilita da Enrico VII. Meno,
disgraziatamente, insiste sulle vicende interne, e solo
saltuariamente ci parla dei rapporti con le altre città.
Sembra simpatizzare per la parte popolare, visto che attribuisce il merito della vittoria cremonese alle porte di Parma nel 1250 più al «populus» che alla «milicia» (68). E non c'è sicuramente da stupirsene, poichè il nostro è di fortissime simpatie guelfe, e - almeno per quel che di Milano ci dice Giovanni da Cermenate - «nam quae hactenus nobilium pars nominata est, nunc Gibellina appellari coepit, alia vero Guelpha, que primum pars populi...» Note23 . E ricorderemo che secondo il Chronicon Regiense gli imprigionati da Enrico VII - fra cui come sappiamo era il nostro - erano «de melioribus popularibus» Note24 . Certo è che è sempre fierissimamente avverso ad Uberto Pelavicino (e ad Ezzelino da Romano, ma è naturale...).
Ma è certo sempre cremonese fino al midollo. Ricorda
(53) la grande vittoria contro i Milanesi del 1213, ma
aggiunge di suo che i Cremonesi in quella occasione erano
«soli», mentre pare che ciò non corrisponda a
verità: stando al continuatore di Sicardo «non habentes
in auxilio nisi CCC milites Brixienses» Note25
; secondo altri con l'aiuto di truppe modenesi, parmigiane, mantovane
e veronesi Note26 . Senza contare la
straordinaria iperbole: «capti ultra decem et octo milia
hominum», quando sembra ben più verisimile quanto
racconta Giovanni Codagnello: «ceperunt circa XXX milites
Mediolani et eius partis» Note27
. In ogni caso il resoconto del nostro è del tutto nuovo, per
noi, tanto analiticamente riferito; e nuovissima poi la menzione
dell'iscrizione celebrativa apposta sul muro del palazzo comunale,
non limpida nel senso e nella grammatica, ma certo orgogliosa ed
esaltante attestazione di una gloria cittadina Note28
. Analogamente il ruolo dei Cremonesi a Cortenuova è
enfatizzato attraverso una battuta dell'imperatore (60),
cosÏ come con un'altra battuta di Federico II l'enfatizzazione
dell'esercito cremonese riceve il sigillo dell'autenticità,
quell'esercito costituito da ben cinquemila cavalieri, mille per
quartiere e mille forniti dall'episcopato (61). Può non
apparire altro che ridicola - e difatti il bresciano Malvezzi non vi
fa affatto cenno - l'incapacità di prendere Brescia motivata
da una straordinaria invasione di mosche nel campo degli assedianti
(62)! Ma è proprio lo straordinario categoria di saggio
di tanta cronistica medievale. Di straordinaria improntitudine, resa
possibile da straordinario amore per la patria, è capace quel
cremonese che rimprovera - ed anche in questo caso il ricorso
è all'immediatezza del discorso diretto - perfino l'imperatore
per la sua fuga, addossandogli la colpa di una sconfitta e della
perdita del carroccio da parte di Cremona, al punto da minacciargli
una decapitazione (per tradimento?) qualora fosse stato possibile
trovare un'autorità superiore alla sua (65)! Il che non
era naturalmente possibile, «rationabiliter», come dice
quel gigantesco eroe....
Decisamente interessante la narrazione della vicenda di Uberto Pelavicino (73).
Il suo avvento alla "tirannia" di Cremona è ricordato nel nostro con
un procedimento "all'indietro", al momento della sua cacciata dalla città,
nel 1266. Dice Gasapino che diciotto anni avanti - tanto infatti fa durare il
predominio di Uberto, mentre è certo che solo nell'agosto 1249, ormai
esauritasi cioè, ma non ancora spenta, la parabola federiciana, diviene
podestà Note29 - divisi i Cremonesi tra
partigiani della chiesa e dell'impero, i primi fecero in modo («procuraverunt»)
che Uberto venisse eletto podestà. Di certo noi sappiamo che Innocenzo
IV si era fortemente impegnato perchè si ristabilisse la pace in Cremona,
indirizzando una lettera il 7 febbraio al podestà, consiglio e cittadini
Note30 , e che aveva poi inviato in città,
con la bolla Misericors et miserator il 13 giugno, gli inquisitori domenicani
Pietro da Verona e Viviano da Bergamo Note31
, con intenti di ovvia normalizzazione dopo i tempi difficili degli "eretici"
di parte imperiale. Ora si dovrà riflettere sulla circostanza che l'autore
di queste note, sempre ferocemente avverso alla parte imperiale, e quindi insospettabile,
sostenga che la nomina a podestà del "tiranno" Uberto sia stata il frutto
di un largo compromesso: di più dice che furono giusto quelli della parte
della chiesa a darsi maggiormente da fare per la sua elezione; nÈ poi
annacqua la scelta qualificandola come un abbaglio! Eppure questo è il
ghibellino per eccellenza, ancora più di Ezzelino da Romano, le cui caratteristiche
troppo "personali" ne fecero sempre un personaggio emblematico, ma tutto sommato
eccezionale. L'elezione di Uberto è dunque atto interpretato dal nostro,
contemporaneo agli avvenimenti!, in chiave di concordia cittadina. Alla quale
non deve essere affatto estraneo il desiderio di prendersi una rivincita nei
confronti dei Parmensi, che l'anno precedente avevano inflitto ai Cremonesi
(e a Federico) una sonora sconfitta: in una aggiunta precedente, infatti, il
nostro aveva presentato la podesteria di Uberto con il preciso programma della
vendetta (62):
Et ante quam hoc bellum fuisse per medium annum fertur quod dominus marchio in quodam magno Cremonensium arengo dixit: «Nostre intencionis est apud portas Parme vendicare cum Cremonensibus nostris iniuriam domino nostro Federico imperatori et Cremonensibus apud Victoriam illactam. Quapropter ex nunc Parmensibus indicimus libellum, et quod tali mense et die tali erimus apud eorum civitatis portas, et siqui eorum exsploratores intersint certissime eis referant quod relata vera apparebunt, et quod ex nunc se muniant necessariis ad pugnandum».
Ed Uberto aveva mantenuto la promessa; è estremamente
probabile che la scelta della sua persona come podestà fosse
anche la sola scelta possibile di un condottiero capace di una
vittoria riparatrice, e scelta unanime cittadina: quell'Uberto che
proclama il fermo proposito di combattere i Parmensi, «in quodam
magno arengo», non può che ricordare almeno
meccanicamente certe "adunate oceaniche" di non lontana memoria. La
"concordia civium", almeno nel momento dell'elezione di Uberto, era a
Cremona perfetta, anche a detta di un avversario politico.
Ma poi il marchese, «spiritu diabolico motus» - espressione
ricorrente negli atti inquisitoriali riferita agli eretici, e
«diabolus« era naturalmente anche Ezzelino... Note32
- prima esercitò di fatto la tirannide, approfittando della
divisione tra le parti, e poi pretese, primo in assoluto nella storia
signorile italiana, dalla stessa parte che più si era
impegnata nella sua elezione, quella della chiesa, il riconoscimento
esplicito della sua signoria. Ancora una volta si sottolinei come
Uberto si rivolga prima di tutto ai partigiani della chiesa, e
ripetiamo che il testimone è insospettabile. Altro che l'uomo
di ferro dei "ghibellini"...
Ma i "guelfi" gli negano il consenso; Uberto finge di incassare bene
e - solo allora! - prende contatti in segreto con la parte avversa,
briga, congiura, trova un accordo, pare di capire, su di un programma
limitato («ad rem de qua agebat pertinere eidem assensum
prebuerunt»). In verità Uberto non ha cercato il consenso
di una parte per farsene campione e prevalere sull'altra: cerca
semplicemente chi gli può rendere possibile l'affermazione del
proprio potere personale: è quanto si desume chiarissimamente
dal resoconto del nostro limpido testimone. Il marchese «in
quodam magno conscilio», radunato per discutere del cronico
ordine del giorno, «de discordia civium sedanda», prima
blandisce parlando di pace, poi agisce di forza incarcerando
«maiores et nobiliores», ma non di una sola parte, i
"guelfi", ma «utriusque partis»! Li spedisce al confino qua
e là; i "guelfi" nel castello di Sant'Evasio, di dove li
riscatterà il pontefice, «de avere ecclesie»
(bell'esempio di alternanza di latino e volgare!). Una bella conferma
la troviamo in un recente volume, dove si dice chiaramente,
riprendendo ed avvalorando già una nota di Salimbene de Adam,
che i primi detronizzati a Cremona furono i Sommi, dei quali -
scopriamo - alcuni erano "ghibellini" (della stessa fazione del
Pelavicino, dice frate Salimbene), altri "guelfi" Note33
. Solo allora Uberto consente a chi si schiera dalla sua parte di
tornare in città. Certo è comunque che se dalla sua
gestione politica vennero gravissimi mali, a tutti, è vero che
fu avversario «maxime contra fideles ecclesie».
La vicenda di Uberto colpisce per la vastità del terreno di sperimentazione: «Regnavit enim non solum in Cremona, sed in Brixia, Mediolano, Papia, Terdona, et fere per totam Lonbardiam», dice il nostro; «Fuit dominus civitatum Cremone, Brixie, Placencie, Terdone, Alexandrie, Turini, Papie, Mediolani, et multa alia fecit et tractavit in Lombardia, ut dominium obtineret», dicono gli Annales Cremonenses Note34 .
Poi vengono le descrizioni analitiche della crudeltà pubblicamente esibita, la mancata considerazione perfino degli uomini di chiesa, le decapitazioni dei molti nobili (ancora una volta cosÏ, in generale, non di una sola parte). La menzione delle numerosissime torri nobiliari - tanto da suggerire un paragone che mi risulta inedito, quello di un grande vento -, la loro bellezza - degna dell'antica Roma -, che davano lustro alla città, e la loro distruzione trova un calzante e coerente parallelo nella situazione di Ferrara, testimoniatoci giusto da Riccobaldo nella Chronica parva Note35 . Ma qui alla distruzione di torri e palazzi degli avversari si dedicarono puntigliosamente anche i fuorusciti una volta rientrati in città dopo la cacciata del tiranno, cosÏ che il triste bilancio giunge a contare oltre seicento fra torri e palazzi «ab utraque parte dirupta». Ma il primo esempio, si consola infierendo il nostro, l'aveva dato Uberto...
L'accusa di aver favorito gli eretici - un altro tòpos su cui
non vale più oggi la pena di insistere - è un po'
diversa nel nostro rispetto alla tradizione. Se per
l'Huillard-BrÈholles Uberto era addirittura una cataro, e per
l'Astegiano solo un ghibellino, e quindi naturalmente portato ad una
politica filoereticale, per Volpe e Gualazzini simpatia di parte e
religione erano gli stessi aspetti della politica di un potente, per
chiunque nel periodo, e quindi anche per Uberto Note36
; per ripetere le efficaci parole del Volpe, «Tutti costoro,
come ghibellini e imperialisti, combattono il Papato; come feudatari
nemici delle città e dei Vescovi, taglieggiano prelati e
pellegrini, ricettano e aiutano eretici; come Podestà di
Comuni e aspiranti a Signoria calpestano i privilegi ecclesiastici,
cacciano dalle città i chierici restii, si oppongono alle
inframmettenze degli Inquisitori. Se anche non sono eretici essi
stessi, l'eresia si avvantaggia dell'opera loro... Chi può
dire... dove finisce il favore concesso agli eretici per rappresaglia
verso i poteri costituiti dalla città, e dove comincia la
simpatia e l'adesione alla setta, anche se con significato diverso e
con carattere più contingente e superficiale che per gli
altri?» Note37 . Oggi ne
sappiamo di più, e quella di Volpe ci appare come eccessiva
semplificazione; ma il grande storico non era certo un ingenuo; direi
che si lasciasse troppo prendere da una constatazione per altro
inconfutabile: «... l'identificazione guelfo-popolare di
ghibellini e Patarini; e il dubbio che a molti prelati si affacciava
sulla possibilità dei ghibellini di salvare l'anima; e la
forte tentazione della Curia di imprimer suggello ufficiale d'eresia
su tutti i ghibellini» Note38 .
L'interpretazione "strumentale" dell'eresia di Volpe era suggerita
dalla realeàstrumentalizzazione dell'eresia che allora gli
uomini di chiesa attuarono Note39 .
Ma il nostro ci fornisce, all'opposto, una versione dell'"eresia" di
Uberto che più "strumentale" non potrebbe essere:
l'«infidelis tyranus», oltre in odio alla chiesa romana,
favoriva l'eresia «propter pecuniam quam a gaceris
extorquebat»! Eresia dipinta con i colori più accesi,
naturalmente: «abhorenda ac nefanda documenta»,
«infiniti patarini», nelle cui numerose e stabili case - e
non manca la menzione delle sinagoghe, ovviamente - «ibi per
totum orbem sese ad eorum enormia conveniebant concilia». Come
è normale, se si dice che in una città ci sono eretici,
quella città è piena di patarini, e lÏ si tengono
riunioni di adepti provenienti da tutto il mondo conosciuto. Ci si
deve meravigliare solamente che ancora oggi si dia credito a
resoconti di questo genere Note40
.
La perdita del potere a Cremona fu dovuta, dice il nostro,
all'avversione che all'improvviso al Pelavicino dimostrò Buoso
da Dovara, alla «potencia» del quale Uberto non potÈ
far fronte. In realtà la questione fu più complessa. La
legazione pontificia composta da Bernardo da Castagneto e Bartolomeo
abate di S. Teodoro di Trevoux, giunta a Cremona per volere di papa
Clemente IV, impose per la riconciliazione con la chiesa romana
l'allontanamento di Uberto, ed evidentemente anche Buoso diede il suo
appoggio ad una simile soluzione, visto che toccava proprio a lui
subentrare. Ancora ci pare evidente un parallelo con quanto riferito
che avvenne a Ferrara nel 1240, quando Salinguerra vide venirgli meno
l'appoggio di Ugo Ramberti, il "secondo" per potenza a Ferrara dopo
di lui, e gli profetizzò, cedendo, analoga fine di lÏ a
poco Note41 . Inediti particolari
sulla resistenza di Buoso, sostenuto in quel caso da Alberto della
Scala, vengono forniti dal nostro.
Cacciati Uberto, Buoso ed i loro sostenitori, otto-diecimila persone,
una cifra relativamente imponente, sterminati patarini e catari,
molti col rogo, finalmente, dice Gasapino, Cremona ebbe pace per
quarantacinque anni, fino alla venuta di Enrico VII.
Che è il nuovo demonio. Atteso dalle città lombarde
«tanquam Deum in terris», come dice il nostro - il
celeberrimo «come fusse uno agnolo di Dio» di Dino Compagni
Note42 -, «benignus et
mansuetus apparuit» per usare le parole di Giovanni da Cermenate
Note43 , in realtà viene per
la «mortem gelforum Ytalie», come subito qualcuno predice,
ed in particolare da lui «clades, ruina et desolatio
Cremonensium emanavit». «Erat vir sapiens et astutus»,
dicono i Cortusi Note44 .
Gasapino dice e non dice. Non ricorda - e non poteva non saperlo -
che già la risposta del signore guelfo di Cremona, Guglielmo
Cavalcabò, agli ambasciataori mandati avanti dall'imperatore
per preparare la sua venuta era stata interlocutoria e leggermente
arrogante Note45 , più per
rispetto dell'alleato Guido della Torre che per intima convinzione,
dice il Bowsky Note46 . Sta di fatto
che Cremona era stata una delle poche città a mostrarsi se non
ostile, molto guardinga nei confronti della prossima venuta di Enrico
VII. Certo meno sospettosa di Guido della Torre di cui anche il
nostro non può non narrare i (fondati, fondatissimi)
timori.
Ma retrospettivamente Gasapino preferisce il tono più drammatico dell'inganno,
del tradimento. Gli ingenui lombardi quasi tutti sulle prime si lasciano incantare:
«credebant quod esset homo pacificus, iustus, humilis et sanctus, et quod
Ytaliam in pace gubernaret», «quod dominum credebant iustum et sanctum,
non tyranicum», perfino quei filoni di Antonio da Fissiraga e Filippo Langosco,
che a detta di Giovanni da Cermenate erano tutt'altro che smaliziati e creduloni,
«quorum mens minime certa erat» Note47
. Perfino Guido della Torre, dice il Compagni, «... baciogli il piè;
e come uomo incantato seguitò il contrario del suo volere» Note48
. Ed invece Enrico era solo un «ypocrita», che si mostra devoto («omni
die divinis misteriis insistebat, confitebatur sepissime pecata; semel vel bis
in septimana assumebat corpus Christi») mentre lo è solo esteriormente
(«et omnia alia faciebat ad ponpam»), per saldare la fiducia di tutti
in lui («ut homines crederent iustum et fidem adhiberent ei»), ma
per raggiungere il vero scopo: «ut sine cuiuscunque contradictione inicium
asumeret suos contra gelfos prosequendi illicitos motus», fino al loro
totale sterminio. Anche il Ventura ha capito tutto: «Variis pestibus merito
afliicti sunt Lombardi, quoniam Henricus Romanorum rex inculpabilis fuit, quia
venerat tamquam rex mansuetus ad pacificandum Lombardos, nec potuit, quia pars
praenominata Guelfa non potuit esse vicina illorum, quibus dominari solebat;
et Gibellini voluerunt antiqua opprobria vindicare; et ideo comparantur anguillae,
quae nec per caput neque per caudam manu teneri non potest» Note49
.
Ma sul momento il clima di pacificazione prevale: a Brescia Tebaldo
Brusato e la sua parte (guelfa) sono riammessi in città
Note50 ; a Mantova rientrano i
guelfi costretti all'esilio Note51 ,
anche se questi atti sono compiuti «ad ponpam», cioè
con la stesso fine nel seguito dei fatti chiarito dalla espressione
che Gasapino ha adoperato per bollare l'ipocrisia devozionale
dell'imperatore!
Per questo scrive Gasapino qui - mentre prima aveva giudicato le sue
inserzioni solamente degli excursusàdivertenti (1,1:
«pulcrum et amenum erit prius enarare et huic addere aliqua hic
omissa) -, perchè l'esperienza non si ripeta, «maxima
posteris subsequatur utilitas»: fatti esperti dalla meditazione
di questa vicenda i saggi sapranno evitare di finire ancora «sub
iugo et potencia agresti generis hominum, imo verius quodammodo
inhumani, Theotonicorum, Wandalorum et Umgarorum crudeliter iruent,
sed pocius eisdem totis viribus resistendo similem vitabunt
iacturam». E recitato un suo proprio Miserereà-
calco (e in parte ripetizione) di quello che apriva la cronaca
dell'Anonimo Milanese al tempo di Federico I! - il nostro passa alla
dimostrazione, dimostrazione della validità del vecchissimo
adagio: Come senti arrivare l'imperatore, metti mille passi tra
lui e te. Intanto non bisognava crederlo affatto «iustum et
sanctum» come falsamente si presentava, ma
«tyranicum», come subito si mostrò evidente nel caso
di Guido della Torre, che pacificamente gli aveva consegnato Milano,
e di tutte le città di Lombardia e Marca Trevigiana che
fiduciose gli si affidarono, con scarse eccezioni. I Cremonesi
accolgono il mandato imperiale e riammettono in città i
fuorusciti, ed accettano anche il vicario imperiale. I ghibellini
impazzano, l'imperatore impone gravami sul sale: scoppia un tumulto,
casualmente, per colpa di quattro scellerati senza arte nÈ
parte che fanno tanto strepito ma poco danno - per la verità
Alberto de Bezanis scriverà di una cacciata del vicario
imperiale... Note52 -; i ghibellini
si lamentano per questo presso Enrico. A ciò si aggiunge il
fatto che i Cremonesi avevano accolto Guido della Torre, accusato
ingiustamente di lesa maestà ed insomma detronizzato a Milano
dallo stesso imperatore e «fraude» di Matteo Visconti e di
suo figlio Galeazzo. Il disegno di sterminare i guelfi viene
perseguito con continuità e su tutto il fronte: a Mantova
Passarino Bonacolsi espelle gli avversari Note53
.
Gasapino alza il tono: c'è chi scusa l'imperatore
perchè era mal consigliato, incolpando cosÏ i consigli
invece di Enrico. E come spiegano costoro il tradimento
«iudayce» perpetrato ai danni dei Bergamaschi, che gli si
erano affidati, che lo avevano sostenuto portando vettovaglie al suo
esercito, e che furono venduti come bestie ai ghibellini per
quattordici mila fiorini d'oro incassati dal fratello
dell'imperatore? E Mantova non fu venduta e rivenduta a Passarino
Bonacolsi per cinquantamila fiorini d'oro una prima volta e sessanta
mila una seconda Note54 ? E Verona a
Cangrande della Scala per ottanta mila fiorini d'oro Note55
, e Vicenza per non so quanto? E Treviso a Rizardo da Camino? Ed a
Milano... Ed ai Padovani... E dai cremonesi incarcerati non ha
estorto oltre venticinque mila fiorini d'oro, e ciò nonostante
ha continuato a tenerli prigionieri ed anzi ha aggravato le loro
pene? Qual'è mai quel brigante che ottenuto denaro dal
prigioniero non lo libera? Delle pene di quei prigionieri, più
pesanti delle infernali, io posso fornire veritiera testimonianza, io
che fui tra i primi cinquanta che si recarono presso Enrico, e tra i
carcerati a Romanengo. Quasi sepolti vivi, senza alcuno spiraglio di
luce ed in settantadue, per lo più nudi, addossati gli uni
agli altri per la ristrettezza del luogo. Il fetore dovuto alle umane
necessità si spandeva all'intorno ed ammorbava l'aria per gran
tratto intorno alla torre dove eravamo. Tanta era la moltitudine di
pidocchi e vermi che non si poteva bere o mangiare senza ingoiarne.
In cinquanta morirono in un attimo ignobilmente. Scampato da
quell'inferno, ridotto in povertà, rimasi semivivo per un anno
intero, e poi per lungo tempo non potei muovermi liberamente, ed
ormai non credo di poter riacquistare la salute di prima.
Non è stato avvelenato la vigilia di Natale Sopramonte degli
Amati con quattordici altri nobili da un ghibellino, essendo nota la
cosa all'imperatore, e non rimasero insepolti come cani il giorno di
Natale?
Come si può dunque scusare Enrico, che di tutti questi orrori
non solo ebbe piena e sicura conoscenza, ma anzi ne fu la causa
prima? Della sua avidità e crudeltà si potrebbe parlare
a lungo, ma non voglio annoiare il lettore. Si può ammettere
che fosse mal consigliato, ma è un fatto che era opinione
comune che la sua avidità derivasse dall'essere di per
sè povero: come dice Giovanni da Cermenate, ricco di belle
virtù ma di denaro bisognoso Note56
. In ogni caso la Lombardia rimase, dopo la sua partenza, in preda
alla più grande discordia.
E su questo non c'è il minimo dubbio. Ricorda allora Gasapino quando
Enrico nell'aprile del 1311 si diresse a Cremona. Una ambasceria di cinquanta
persone tra i più nobili e potenti, fra cui il nostro, lo incontra a
Paderno. L'ambasceria doveva suscitare compassione: «cum cerigiis et cingulis
laqueatis ad colla eorum involutis, devotissime, in luto propter pluvias, flexis
et nudis genibus suplicantes et veniam pro patria et insontibus tantum deprecantes»,
tanto che perfino il Compagni, tutto e sempre dalla parte dell'imperatore, non
li descrive con accenti diversi: «scalzi, con niente in capo, in sola gonnella,
con la correggia in collo; e dinanzi a lui furono a domandare merzè»
Note57 . Parla un rappresentante ed offre la
soggezione dell'intera città. L'imperatore è sprezzante e non
parla: «imperatore nil dicente» per il nostro, «A' quali non
parlò» per il Compagni. Chiede arrogantemente conferma per lui il
conte di Savoia: «Et vos sic dicitis et vultis?»; e quelli: «Sic,
domine». E subito li si fa prigionieri e li si conduce in una casa di Paderno.
Non contento Enrico, senza che ci sia stato il tempo di avvertire della cattura,
manda a dire a Cremona che più gli si sarebbe reso onore più si
sarebbe ricevuta indulgenza. Per alcuni che più accorti rimangono in
città, un altro centinaio si reca a Paderno, che immediatamente si uniscono
ai primi prigionieri. Poi finalmente si dirige - «turbidus», dice
il filoimperiale Giovanni da Cermenate Note58
- alla volta di Cremona, mentre i prigionieri vengono definitivamente incarcerati
in diversi luoghi di Romanengo.
Continua l'imperatore a sdegnare i segni di onore che gli rivolgono i
cremonesi, anzi qualcuno del suo seguito vorrebbe distruggere il
carroccio, ed allora molti giovani nobili giudiziosamente lasciano la
città.
Su suggerimento dei ghibellini e di qualche altro personaggio di
dubbia lealtà (ed ortodossia...) decreta l'imperatore
provvedimenti tesi ad angariare i guelfi. Qualcuno riesce a fuggire,
molti sono gli imprigionati in diversi luoghi dei dintorni. Tutto
depredano le sue genti, tranne le mura che non erano in grado di
portarsi via.
Ma perchè poi simile eccezionale durezza? Stando al resoconto
di Gasapino perchè Cremona aveva seguito la parte di Guido
Torriani, anzi l'aveva ospitato quando era stato costretto ad
abbandonare Milano. Se a ciò si aggiunge che la città
si era scelta un podestà fiorentino, aveva accolto
un'ambasceria di guelfi neri, suoi ambasciatori erano a Lodi quando
questa si ribellò all'imperatore, ci rendiamo pienamente conto
che «Cremona assumed the role of rebel chief in northern
Italy» Note59.
Termina con la semidistruzione della città il rapporto diretto
Cremona-imperatore, con quel triste bilancio. Ma non termina
l'interesse di Gasapino per la spedizione italiana di Enrico VII.
Spedizione fallimentare: dopo quello che era successo a Cremona, dove
Enrico si era mostrato null'altro che spietato, come si poteva
pensare, nota giustamente il Bowsky, che la situazione generale non
si irrigidisse Note60 ? Perfino il
Ferreto sente il bisogno di osservare a questo punto che «tunc
Cesar nimium sevus asperque iudicatus est, aliis iustus misericorsve
quod in hos truciora non egisset; sed profecto, si mitius cum his rem
tractasset, venieque lacus, ut noxam benignitas superasset, ceteri
Ligurum populi eo liberius pio regi se dedissent. decet enim Cesarem
clementem esse, prostratosque et veniam poscentes gremio pietatis
excipere» Note61 . I ghibellini
ora potevano sperare solo in una difesa ad oltranza, come si vide
immediatamente a Brescia. Tebaldo Brusato non se la sentiva di fare
la fine di Sopramonte Note62 .
Insomma «Henry had committed a serious tactical error»
Note63 , ed il suo disegno era
già destinato al fallimento. La vittoria di Pirro a Brescia
Note64 è un'altra stazione di
questa via crucis. La morte dell'imperatore, che conclude
praticamente le note del nostro cremonese, segna solo una
accelerazione di quel fallimento.
CosÏ, per quanto la protagonista assoluta dei racconti di
Gasapino sia certamente Cremona, non si può dire che
l'interesse del nostro sia esclusivamente municipalistico. Anzi
proprio qui le note si dimostrano particolarmente carenti, e
deludenti. Se gli occhi e le orecchie di Gasapino fossero state
più attente alle vicende cittadine, infatti, si sarebbe
preoccupato di tramandare una ben maggior messe di notizie sui
personaggi eminenti, i giochi del potere, perfino qualche tratto di
storia urbanistica della città, com'è normale. Invece
per lui gli anni che vanno dalla cacciata di Buoso da Dovara
all'avvento di Enrico VII sono totalmente annacquati dalla didascalia
«tempo di pace», degni di nessun ricordo. Cremona torna ad
essere degna di resoconto storico quando deve subire la
malvagità di Enrico VII e dei ghibellini. Non si può
ricavare dalle note di Gasapino quello che invece è costante
nelle cronache e nella vita delle città dell'Italia
settentrionale del tempo: «il primato accordato ai problemi di
politica interna, alla corsa alle cariche, che prevale decisamente
sulla fedeltà all'impero e alla Chiesa» Note65
.
Per lui le "parti" sono un dato normale, direi fisiologico della vita
politica cittadina, non sono affatto le «maladette parti»,
nÈ pensa ad un superamento del sistema partitico, come invece
è avvenuto ed avviene in tante città italiane Note66
. Ed ecco l'alternarsi tra fuorusciti e rientranti, i cremonesi che
soggiornano presso città con regime amico, fino al prossimo
riproporsi dei rispettivi ruoli. Il "male" della città non
è il "male" del sistema di vita prubblico (e contemporanemente
privato e di fazione, di parrocchia e cosÏ via), al massimo si
può identificare con l'inumano Pelavicino: lui rimosso non
c'è più nulla da deprecare.
Per designare le parti non dimostra particolare consapevolezza, e
proprio per questa ragione ci restituisce tutta la complessità
della situazione. L'accordo politico-militare del 1302 tra cremonesi,
piacentini, pavesi, vercellesi, novaresi, laudensi contro Matteo
Visconti è designato come «societas belli» e gli
aderenti sono «socii belli» (87,9), ma sono
espressioni qui poco pregnanti, tant'è vero che le ricava
meccanicamente da Riccobaldo. L'appellativo di guelfo e ghibellino si
trova di frequente, ma senza che sia legato ad ulteriori
specificità. Più interessante l'uso di
«pars». Al tempo del Barbarossa era la "parte" dei pavesi
opposta a quella dei milanesi (48,2. 6), fra le quali è
l'imperatore costretto a scegliere. Alla metà del Duecento a
Cremona i cittadini sono divisi nettamente: poichè «et
partim adhererent ecclesie, et partim imperio» (73,1), ed
Uberto Pelavicino gioca con i due schieramenti. C'è
sicuramente la «pars gibellina» (87,38) opposta alla
«pars ecclesie» (73,2); ma c'è anche la
«pars marchionis» opposta ai «fideles ecclesie»
(73,2), la «pars imperii» (73,3), «illi
de parte ecclesie» (73,2), «Amatus de Amatis cum
fidelibus ecclesie Capeletis, eius complicibus» (74)
opposto a Buoso da Dovara «et pars sua» (73,6), quel
Buoso «alterius partis, que erat imperii, princeps cum suis
complicibus et amicis postea TrunchaÁufis seu Barbarasis
nominatis (74). Gherardo da Camino «partis ecclesie sive
gelfe in Marchia Tervisina princeps et caput fuit» (78).
A Brescia Enrico VII riporta in città Tebaldo Brusato «et
eius partem» (87,17); più tardi «Tebaldus
Bruxatus cum parte sua expulsit gibellinos de Brixia, et imperatori
rebellavit» (87,29). Appartenere ad una parte, essere
«amici» o «complices» di una famiglia, di una
personalità significativa, non esaurisce certo le
possibilità di coordinamento politico. A Roma in lotta sono la
parte di Enrico VII e quella degli Orsini, dei fiorentini e dei
bolognesi, alle quali - «utrique parti» - Clemente V intima
di lasciare la città (87,40). In 87,13 dice
della «Bardelorum pars, quibus adherebant gibellini»,
distinguendo evidentemente i due gruppi, ed ancora più
chiaramente poco più sotto: «post modicum tempus
gibellini exterminaverunt de civitate Bardelorum partem, et quasi
omnes gelfos», dove c'è ulteriormente da chiedersi se
quel «quasi omnes gelfos» significa la quasi
totalità del numero, o solamente una "parte" dei guelfi, da
distinguere ulteriormente, come è certo che si doveva fare per
Firenze, com'è notorio: «gelfi de parte que nigrorum
dicitur sunt secuti, invitis guelfis blanchis» (87,1). Ed
ancora ci sono «illi de la Ture» (87,9. 10. 22) e
«illi de Fontana» (87,13), e ad ogni schieramento si
contrappone un altro di «adversarii» se stanno dentro,
«extrinseci» se sono fuori città... Ed è
molto forte la distinzione tra «milites» e
«populus», come si è visto sopra (e vedila anche in
87,9). Volta a volta si carica dunque il vocabolo designato ad
indicare la "parte" di significati diversi, comunque complessi, ora
più squisitamente politici, ora militari, ora ideologici, ora
territoriali, ora di clan, ora con sfumature di classe, ma mai
esclusivi Note67 . A Cremona, come a
Firenze, Ferrara, Verona e Milano, ed una infinità di altre
città del settentrione d'Italia, si è di una delle due
parti in contrasto vicendevole, o guelfi o ghibellini, o dei Cerchi o
dei Donati, o della chiesa o dell'impero, o dei Torelli o degli
Estensi, o bianchi o neri, o dei Monticoli o dei San Bonifacio, o dei
Torriani o dei Visconti, o "milites" o "populus"; ma quel che
è incontrovertibile è solo la divisione per due: per il
resto non è automatica sinonimia tra i nomi che designano
l'una nÈ ovviamente tra quelli che riguardano l'altra, e si
può far parte di più di una di queste "parti". Solo il
"signore" metterà tutti d'accordo...
Anche «tyrannus» non ha - ed è una ulteriore
conferma Note68 - un significato
univoco: Buoso da Dovara, che a Cremona succede ad Uberto Pelavicino
«in tyranidem eodem» (73,5-8), Matteo Visconti
(87,9), Passarino Bonacolsi (87,24) e Cangrande della
Scala (87,25), tiranni di Milano, Mantova e Verona non
evidenziano alcun connotato, positivo o negativo che sia, ma
dell'ultimo Gasapino riprende quel che ne diceva Riccobaldo
(87,43): «vir iuvenis et acer, securus in discrimine
preliorum», che comunque ne sottolinea caratteri virtuosi.
Terribile, violento, «crudelissimus»,
«infidelis», autore di «calamitates et
crudelitates» è Uberto Pelavicino (68,
73,1-5), di cui viene narrata analiticamente - lo si è
visto più sopra - la presa del potere: «Huius tyrania hoc
modo incepit». «O quanta mala abhominanda et enormia per
totam Lonbardiam ex istius tyrania proceserunt!»; ma sarà
da sottolineare che, nel racconto di Gasapino, Uberto chiede
preventivamente alle parti che alla sua tirannia diano il proprio
parere favorevole! Se alla "tirannia" si fosse data pura accezione
negativa, quella domanda sarebbe stata senza senso: evidentemente non
era cosÏ. «Abhominandus et maledictus» è
naturalmente Ezzelino (70); «tyranicum», se riferito
al dominio di Enrico VII, significa il contrario di «iustum et
sanctum» (87,20); Azzo VIII d'Este è cacciato da
Modena e da Reggio «a populis avidis libertatis», diceva
Riccobaldo e riprende Gasapino (87,12); ma invece Guido della
Torre, tiranno di Milano, Filippone Langosco, tiranno di Pavia,
Antonio Fisiraga, tiranno di Lodi, Venturino Benzoni, a Crema
«quasi dominum», non sono affatto personaggi negativi, anzi
appaiono, soprattutto il primo, vittime innocenti - per non dire
ingenue - della malvagità di Enrico VII e di Matteo e Galeazzo
Visconti sostenuti dall'imperatore (87,15. 20. 22). Ma Cremona
non ebbe, dopo Uberto Pelavicino e Buoso da Dovara, e fino a che
scrive Gasapino, una signoria stabile, e la cifra politica della vita
cittadina sarà sempre e solo quella della fazione.
Poichè la fazione è comunque raccordata alla dialettica
tra impero e chiesa, ed a quella tra "regnum" e "sacerdotium", si
capisce l'estrema importanza assegnata anche dal nostro alle
spedizioni imperiali in Italia; ed ecco allora lo spazio grande fatto
alle figure di Federico I, Federico II ed Enrico VII ed ai relativi
avvenimenti di contorno. Nell'imperatore - vero deus ex
machinaàdella tragedia cittadina - confidano i perdenti,
come in fondo sono Dante e Compagni, nella certezza di un
rivolgimento di regime, nelle patrie rispettive, che restituisca loro
dignità e peso politico; di lui diffidano i detentori del
potere, Guido della Torre e tutti quelli della sua "parte", come
testimonia anche Gasapino. Il carro imperiale trascina un seguito di
trionfi ed umiliazioni: il Barbarossa consente a Cremona la rivincita
su Milano; lo stesso fa Federico II, ma la sua condotta disattenta
della guerra a Vittoria causa la perdita del carroccio; Enrico VII
poi porta solo sofferenze indicibili.
Se in altri cronisti coevi l'identificazione tra la città ed i cittadini eminenti è un dato normale - Ferrara è Azzo d'Este, Verona è Cangrande -, in queste note Cremona è per lo più la città dei cremonesi, al massimo dei cremonesi guelfi. Non è questione di singoli cittadini eminenti; ed infatti neppure Enrico VII ha come obiettivo l'annichilimento dei singoli "signori". C'è un preciso disegno, una politica "italiana" dell'imperatore sostenuta in primissimo luogo dai Pisani, ma poi anche da tutti i ghibellini italiani, diretta all'annientamento della parte guelfa, dice il nostro: «ut gelforum Ytalie esset exterminium, et eorum nomen radicitus exturparetur ubique» (87,15); «quia in animo conceperat ubique gelfos et fideles ecclesie delere et ipsorum nomen radicitus per Ytaliam extirpare» (87,22). Per dirlo lapidariamente col Ventura «Pars Guelfa mortua fuit» Note69 . Non è certo un'idea singolare: anzi è l'idea principe propagandata dai fiorentini, alla quale, giusto con il suo comportamento a Cremona, Enrico VII aveva offerto il più convincente appoggio: «Where was the Regis pacifici imitatorànow? Was the Black Guelf republic the bastion of liberty that it claimed to be?» Note70 . Ma esauritosi quel disegno - in maniera fallimentare si è visto - il nostro non si preoccupa neppure di ricordare che rapidamente, partito l'imperatore dalla Lombardia, le cose tornarono come prima quasi dovunque, almeno sicuramente nella sua Cremona! Il fatto è che l'avversione ad Enrico VII non è prettamente ideologica, ma semplicemente dettata dalla volontà di difendere l'autonomia della propria città, come del resto era sempre stato a Cremona Note71 , e bisogna ricordare che proprio il guelfismo, fautore della lega antimperiale al tempo del Barbarossa, tendeva, ora che si era fortemente ridimensionata la potenza dell' impero, a perseguire più accanitamente la libertasà cittadina, più di quanto non fossero portati a fare i ghibellini, per i quali invece era, nella mutata situazione generale, preferibile una riunione vagamente federativa sotto la spesso lontana e comunque poco temibile egida imperiale, come ci hanno insegnato partendo da versanti cronologici opposti Giovanni Tabacco prima e Marcel Pacaut poi Note72 .
Insomma dalla lettura di queste note il nostro autore non si distingue nell'orizzonte piuttosto piatto della cronachistica contemporanea, dalla quale pare non poter dedurre altro che «un impressione generale di sconcertante confusione. Le cronache, compilate giorno dopo giorno da oscuri mercanti o artigiani o da un chierico, un canonico o un abate, persone più di altre interessate agli affari politici e spesso direttamente coinvolte in tutti i problemi della propria città, paiono tutte sfidare qualsiasi possibilità di analisi» Note73 . L'unica eccezione che conosco è costituita dalla straordinaria Chronica parva Ferrariensis di Riccobaldo. Qui abbiamo un oscuro giudice che, pur impegnato in prima persona nella vita pubblica della sua città, non riesce a dipanare alcun filo interpretativo delle vicende della politica che non sia la condanna dei cattivi che prevaricano sui buoni, vale a dire su quelli della sua parte. Si aggiunga che queste note non sono una "storia", sono proprio null'altro che note, per di più all'interno - ma "in margine", non come risproposizione - di una cronaca scritta da un altro.
Lieti per il ritrovamento di un testo finora ignoto di un quasi
completamente ignoto Gasapino, non possiamo pretendere dal giudice
cremonese che ci dia quello che evidentemente non era in grado
neppure di possedere.
Gli interventi editoriali sono ridotti al minimo, così che
l'edizione che presento è poco più che diplomatica.
Normalizzo separazione delle parole, punteggiatura ed uso delle
maiuscole. Riservo il corsivo per le rubriche, titoli di libri,
preghiere e simili, versi poetici o epigrafi. Divido il testo
numerando le aggiunte, e separando ulteriormente in paragrafi,
cosÏ come sono indicati nel manoscritto dall'a capo oppure da
¢ in minio o blu. Uso delle parentesi uncinate [] per
segnalare integrazioni ritenute necessarie dall'editore, delle
quadrate [] per le espunzioni doverose, e delle tonde () per
indicare letture difficili od incomprensibili. Correggo normalmente
là dove li trovo i lapsus calamiàevidenti, la
ripetizione di parole o frasi poi espunte, le correzioni ed
integrazioni sopra lineari, senza segnalarlo.
Poichè le inserzioni di Gasapino avvengono come si è
detto all'interno del Pomeriumànon posso per ora che indicare
Libro, Capitolo, Paragrafo della edizione che spero tra non
molto di pubblicare; si troveranno comunque in nota le indicazioni
indispensabili alla comprensione del senso.
L'apparato di commento rende conto delle fonti, e - là dove il
testo si presenta con caratteri di originalità - dei paralleli
cronistici possibili, e di tutto quanto può chiarire,
correggere, integrare i singoli passi.