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I perch della Signoria
Premessa
L'argomento della nostra conversazione di oggi comprende ormai una letteratura
amplissima, veramente, come si dice, sterminata, tale da riuscire impossibile a
chiunque dominarla completamente. Non ho difficolt alcuna ad ammettere, ad
esempio, che non conosco tutti i titoli radunati da Antonio Ivan Pini in coda
al suo saggio dedicato giusto al passaggio dal Comune alla Signoria nella Storia
d'Italia UTET. Con l'avvertenza che neppure quella raccolta da Pini
la bibliografia sul tema, ma solamente una delle possibili, seppure
indubbiamente molto ampia. Cos mi stato agevole constatare che alcune delle
mie letture in merito - che personalmente ritengo di capitale importanza - non
sono contemplate in quell'elenco.
Le fonti
Il fatto che in realt per il nesso citt-Comune-Signoria tutto ci che
stato scritto contemporaneamente importa, ovviamente pi o meno, a seconda
degli aspetti che di quel nesso si vogliano volta a volta sottolineare. Le
fonti per il nostro argomento sono tutto quel che abbiamo ricevuto dal passato,
e non solo la documentazione scritta, visto che evidenze archeologiche e
numismatiche sono spesso altrettanto eloquenti. Hanno importanza perfino le
testimonianze a prima vista pi lontane, private, intime, come i testamenti;
certamente quelle inerenti la storia della spiritualit del tempo; gli eretici
ed i Comuni e le Signorie argomento che ha la sua dignit e sviluppo; come
tutto ci che chiarisce i rapporti personali (basti pensare alla registrazione
degli obblighi feudali tra signori e loro sostenitori), i rapporti familiari e
di consorteria; come ovviamente i provvedimenti legislativi, per non dire delle
composizioni letterarie (basti pensare alla Commedia dantesca), le concessioni
di titoli imperiali e papali, che tanto hanno attirato in passato l'attenzione
degli storici del diritto, e via di questo passo. Nulla pu essere escluso.
Ma fatta questa doverosa premessa, che consente a qualunque conferenziere di
procedere tranquillamente a dire solo quel che sa, scontando che quello che non
dice - o non sa, il dubbio perfidamente consentito - si trova altrove, fatta
questa premessa, dicevo mi rimane solo da avvertire che non proceder di qui in
avanti tentando una sintesi per dir cos "scolastica", riducendo il
tutto ad uno schema valido per ogni esperienza signorile, ma in realt per
nessuna di quelle esperienze, quanto piuttosto trascorrendo da quello che giudico
un nodo fondamentale della questione all'altro, nodi che ritengo pi
storiograficamente nuovi ed interessanti, con il fine di sollecitare in voi
quanto pi possibile l'esercizio di una spirito critico che trovi nelle mie
parole niente pi che una suggestione ad ulteriori approfondimenti. Convinto
come sono che ancora molto resti da chiarire al proposito, e convinto ancor di
pi che l'unica pedagogia possibile sia quella di sollecitare curiosit e
domande, e di indicare vie ragionevolmente percorribili, nelle quali ognuno
debba con i propri mezzi immettersi. Come ripeto continuamente ai miei
studenti, credo di avere una sola cosa da insegnare: non credete a nulla ed a
nessuno, a me per primo, verificate tutto, e soprattutto mettete in moto il
vostro cervello e la vostra sensibilit. Ma poich naturale che la
possibilit di farsi domande sia direttamente proporzionale alla cultura che si
possiede, ecco allora che questa mia conversazione dovr mirare a fornirvi un
terreno gi preventivamente, anche se non completamente assodato, su cui
muoversi.
Ed entriamo allora nel vivo del tema, almeno per quelle pochissime cose che
potremo affrontare. Come ho ricordato precedentemente tutte le fonti
disponibili sono utilizzabili; ma certo a mio avviso quelle maggiormente capaci
di fornirci indicazioni, oltre le informazioni, utili alla comprensione del
fenomeno sono due: i trattati dottrinari sui diversi reggimenti politici e,
soprattutto le cronache. A questo tipo di fonti dunque ci limiteremo in modo
esclusivo.
La fenomenologia
Chiediamoci anzitutto quale sia la discriminante tra Comune e Signoria, che
cosa sia cambiato tra un "prima" e un "dopo", e in che cosa
consista questo confine. La ricerca di chiarezza in proposito stata
all'origine di un lavoro di Ernesto Sestan del '61, subito divenuto famoso, e
che ancora oggi mantiene forza problematica. Contro gli storici del diritto
Sestan negava che significasse il discrimine la legittimazione del potere del
"dominus" conferita dal "popolo" riunito in assemblea
pubblica: a quel punto il gioco era gi concluso, il mutamento istituzionale
"legale" sanciva un mutamento di fatto, non si spiegava per nulla il
perch il comune fosse divenuto una signoria, ma solo come il signore avesse
formalizzato il mutamento. Il fatto nuovo non trovava neppure spiegazione nel
mantenimento esteriore delle cariche istituzionali comunali, del podest o del
capitano del popolo, perch ci furono Signorie che non conobbero neppure gli
sviluppi comunali del popolo, mentre ci furono anche Signorie che, per cos dire,
si affiancarono al Comune. La presa di potere sembra invece doversi risolvere
nella violenza, del gruppo che risulta vincente come di quello che soccombe, ed
in questa logica era naturale che le consuete istituzioni fossero
strumentalizzate. Le ragioni del mutamento dunque risiedono non nella crisi
degli ordinamenti comunali, che da sempre non esaurivano la rappresentanza di
tutte le forze cittadine, ma proprio nella sostituzione di una istituzione ad
un'altra, anche se il momento della sostituzione graduale, difficile da
individuare, e prima di fatto che di diritto.
Il punto che le istituzioni comunali non erano apparse in grado di comporre
gli scontri interni, non solo tra gruppi sociali, ma anche tra famiglie
potenti, e la ragione profonda di questa mancata funzione di composizione stava
nel fatto che il comune non era in grado di dimostrare effettiva capacit di
coercizione al di fuori dell'ambito cittadino. Gli unici provvedimenti erano
stati, l dove si erano verificati, tesi ad allontanare dalla citt quelli che
si ritenevano la causa delle discordie, i cosiddetti "magnati". Ma si
trattava di un espediente che non risolveva affatto le ragioni di contrasto,
che persistevano fuori, e poi sempre, per i numerosi contatti mantenuti naturalmente,
visto che non si poteva allontanare la quasi totalit della popolazione, anche
all'interno della citt. Mentre Estensi, della Scala, da Carrara, della Torre,
Visconti eccetera non hanno come unico orizzonte politico, oltre che
patrimoniale, la citt. Anche se poi in citt che i giochi si concretizzano.
E l'incapacit istituzionale di cui abbiamo detto era stata solo parzialmente
corretta rendendo il potere comunale forte e quasi assoluto, come si fece con
il ricorso al podest, perch rimaneva il grosso handicap dell'alternanza delle
persone, che riproponeva l'instabilit. Si detto al proposito che i
contemporanei non capiscono, e pensano di recuperare la mitica
"concordia" delle origini mediante la creazione di magistrature
"garantistiche" delle parti, ingannando cos se stessi ed inducendo
all'errore lo studioso moderno. Ma in realt non tutti si ingannavano, non
tutti guardavano solo all'indietro, non tutti insomma continuavano a pensare le
cose in una visione esclusivamente "comunale". Se noi leggiamo quello
che dice Riccobaldo dell'alternanza delle magistrature potremo fare una
sorprendente constatazione.
L'alternanza consent insomma agli Estensi ed a quelli della loro parte di
unire nelle stesse mani l'egemonia che essi esercitavano fuori della
citt con il potere che si esercitava dentro la citt. E proprio questa concentrazione costituisce il senso
profondo della signoria, che , in definitiva la presa del potere, di contro ad
una detenzione di diversi poteri
che connota l'et comunale. Il caso di Ferrara non solo cronologicamente il
primo, ma soprattutto illuminante.
Ferrara
Qui un ruolo determinante ricoperto non dal signore, come ci si aspetterebbe,
ma da uno dei suoi maggiori alleati, Aldighiero Fontana. Personaggio le cui
fortune non dipendevano affatto dall'essere un sostenitore degli Estensi.
Aldighiero Godr sempre dell'amicizia particolare dell'arcivescovo di Ravenna,
del quale ricopre il ruolo di visconte in una serie numerosa di atti che ci
sono pervenuti. D'altra parte la signoria di fatto di Azzo VII, inauguratasi
nel 1240, dopo la sconfitta della parte avversa, era ancora troppo giovane per
spegnere l'emulazione tra le famiglie che lo sostenevano, in particolare tra
Turchi e Fontana. Sembra anzi che gi un qualche motivo d'attrito tra
Aldighiero ed i signori d'Este si riesca ad intravvedere ben dieci anni prima
della rottura pubblica del 1270. Il 22 marzo 1260 rientrarono in citt, con il
malcelato favore di Filippo arcivescovo ravennate, in veste di penitenti le
famiglie che in seguito ai fatti del 1240 si erano dovute allontanare da
Ferrara, e che per lo pi avevano trovato un luogo di rifugio giusto nel
Ravennate. Sappiamo dell'ostilit del marchese per il movimento dei
flagellanti, come sappiamo del legame stretto tra Aldighiero e Filippo
arcivescovo. Ora possibile, per non dire probabile che il 5 giugno successivo
- che vide i ripetuti tentativi dei Turchi per il raggiungimento dell'egemonia
sfociare in un appariscente risultato: la cacciata con la forza dei Fontana
dalla citt - segnasse un momento di opposizione robusta non solo tra Fontana e
Turchi, ovviamente, ma anche tra Aldighiero ed Azzo VII; con quelli sul
predominio, con questo sul modo di intendere i modi della spiritualit: una
sorta di anticipazione di quanto avverr pi tardi a proposito dell'eretico
Armanno Pungilupo. Aldighiero con i suoi fu in grado di ritornare - e
costringere alla fuga la famiglia rivale - il 20 febbraio dell'anno successivo.
Dopo di che l'ascendente di Aldighiero sul marchese dovette riuscire al massimo
grado, se Riccobaldo pot scrivere: Erat inter potentes Ferrarie consilio,
opibus et potentia prevalens vir Aldigerius de Fontana. Huius consilio et nuto
Azzonis aula et civitas regebatur. Sembra giunto il grande momento di
Aldighiero; non solo governa citt e corte del marchese, ma si prepara anche il
futuro: proprio lui - sostiene ancora Riccobaldo - a condurre opera continua
ed intensa (persuasit et studio instanti effecit) per convincere Azzo a
designare erede nel suo testamento il nipote Obizzo. Non basta: il terreno
ulteriormente assestato, quando il marchese prossimo alla fine, con una
riunione voluta da Aldighiero che si tiene a Ferrara tra gli amici potentes
delle citt vicine; riunione protetta, gi con intendimenti intimidatori, da
gruppi di armati fedeli ugualmente fatti affluire da pi luoghi, mentre gli
elementi pi pericolosi tra gli avversari vengono fatti allontanare dalla
citt. La discussione si accende; due tesi opposte si fronteggiano. La prima,
sostenuta con vigore da Aldighiero, propone la sostituzione di Azzo con Obizzo;
la seconda, perorata dall'arcivescovo Filippo e dai pi eminenti dei nobili
ravennati, invece per lo stesso Aldighiero. Prevale infine la prima, e si
decide per Obizzo. Potrebbe sembrare sorprendente il parere di Aldighiero, se
lo si considera in base agli avvenimenti successivi, che naturalmente allora
nessuno era in grado di prevedere; ma una lettura attenta del testo del
cronista di Ferrara pu evitare fraintendimenti. La prospettiva di Aldighiero
non certo quella dell'innovazione: la riunione vien fatta pro conservatione
partis eorum, dice Riccobaldo. La candidatura di Obizzo osteggiata
dall'arcivescovo e dai ravennati per la scarsa affidabilit di un giovane di
diciassette anni che in realt nessuno conosce per esser vissuto a lungo
lontano da Ferrara, e di cui quindi non si possono prevedere comportamenti,
inclinazioni, virt e difetti, e la previsione alla base di ogni decisione
politica. Invece sono proprio queste caratteristiche che muovono Aldighiero,
preoccupato di mantenere nel quadro ferrarese il proprio ruolo egemone, ma non
ancora tanto forte da imporre formalmente il suo nome al vertice istituzionale.
Del resto Azzo VII, che spesso era stato lontano dalla citt, e che non sempre
aveva mantenuto la carica di podest, aveva dimostrato che si poteva governare
anche senza attributi formali. La scelta di Aldighiero, di persona
oggettivamente debole ma prestigiosa per il nome che portava, mirava insomma a
garantirgli per il presente e l'immediato futuro il rafforzamento dello status
quo. Una conferma egregia si trova nel discorso che poco dopo
Aldighiero fece di fronte a tutto il popolo ferrarese. Rapidamente liquidata la
cerimonia della sepoltura del defunto marchese, le campane ed i banditori
chiamano a riunione i ferraresi. Parlano per primi gli esponenti delle citt
vicine, che chiedono la legittimazione pubblica di quanto gi deciso in
privato; alla fine arringa la folla Aldighiero, huius tam sancti edifici
architectus, che spudoratamente conclude il suo discorso avvertendo che, se
Obizzo non dovesse essere accolto come successore di Azzo a Ferrara, Aldighiero
e quelli che lo affiancavano avrebbero anche potuto crearsi dal nulla un
signore fantoccio, unum dominatorem construeremus ex paleis, tanto sono certi
del loro potere. Dimostrazione la pi chiara possibile che Aldighiero non
vedeva affatto nel nuovo giovane signore un qualche ostacolo al suo progetto.
L'acclamazione popolare - sotto vigilanza armata! - sancisce la volont di
Aldighiero, ed atti giuridici formali certificano immediatamente la successione
politica. Gli anni direttamente successivi danno completamente ragione ad
Aldighiero, che, Obizonis magister, nomina e costituisce funzionari e
consiglieri in citt e nella corte del signore, di cui si preoccupa anche di
difendere ed accrescere il patrimonio; tutto si decide per suo volere, ipse
omnia moderabat, lui il vero signore di Ferrara. Ma poi il clima si
deteriora; Obizzo si muove con sempre maggiore autorevolezza, l'antagonismo tra
signore di diritto e di fatto si manifesta. Il primo segno della rivalit
aperta ci noto sul finire del 1269, quando Aldighiero risulta testimone il 20
dicembre, accanto al vescovo, a Federico arciprete, al canonico Ferrarino, ed ai
nobili Menab - antichi partigiani dei Torelli! -, alla certificazione notarile
di un miracolo avvenuto al sepolcro del "santo" Armanno Pungilupo;
pare una conferma che sul piano della manifestazione di piet religiosa,
almeno, Estensi e Fontana sono su sponde opposte, forse una seconda volta.
Poich noto come Obizzo favorisse la soluzione del "caso" Pungilupo
(condannato trent'anni pi tardi come eretico, il suo cadavere estratto dal
sepolcro nella cattedrale, bruciato e le ceneri sparse nel Po). Ma certo che
l'anno cruciale il successivo. A sei anni di distanza dal riconoscimento
ufficiale della sua signoria Obizzo era cresciuto non solo d'et, e mostrava di
non voler affatto essere un signore di paglia. I contrasti con Aldighiero
dovettero essere grandi e noti a tutti, se Riccobaldo osserva che la morte
improvvisa del Fontana, per veleno si sospettava, nel luglio 1270, era stata
imputata proprio al signore d'Este. Scomparso il capo della famiglia,
gravemente infermo l'amico arcivescovo Filippo, prossimo alla morte, la rottura
aperta e violenta tra Estensi e Fontana si consuma immediatamente. Nell'agosto
il fratello e il figlio di Aldighiero ed altri nobili - l'alleanza con i vecchi
nemici Turchi testimonia che veramente si scontra il disegno di Aldighiero, di
disporre della signoria, con la volont di affermazione del signore - si
oppongono con la forza ad Obizzo, ma vengono sopraffatti. Non si tratt di un
episodio: la lotta continu fino all'allontanamento a lungo definitivo della
famiglia, del resto fortemente decimata, nei primi mesi del 1277. Era la totale
sconfitta politica di Aldighiero; elevatissimo epitaffio ne scrive Riccobaldo:
In navigatione nauta Typhis erat, ceteri principes ut naute minores
obtemperabant. Denique per annos fere sex vela navis ipsius Aldigerii flatibus
secundis implevit Fortuna. Ventorum rex Eolus, incluso miti Zephiro, Aquilonem
et nubiferum Eurum induxit, qui Aldigerii navem diu fluctibus agitatam tandem
immersit.
Il caso, dicevo, esemplare, perch dimostra all'evidenza che a Ferrara in
realt nessuno ragionava pi in termini "comunali", ma si trattava
ormai di decidere solamente chi del gruppo egemone avesse dovuto chiaramente
apparire di fronte a tutti, e con ogni attributo legale, come signore. Dimostra
anche che le relazioni "esterne" hanno un peso determinante: la
signoria non nasce all'interno delle mura della citt, ma dopo una tractatio
tra le forze egemoni circonvicine. Dimostra ancora che l'opposizione non viene
dai sostenitori delle magistrature comunali, o della libertas cittadina, ma
solamente dalla parte che al momento soccombente, e che in realt aspirerebbe
a quel medesimo ruolo. Ma non affatto vero che il mutamento istituzionale non
sia avvertito. Non solo Riccobaldo avverte che il sostegno veniva da coloro che
godevano di quell'assetto istituzionale, ma soprattutto nota, per quanto con un
certo moralismo, che il nuovo signore gode di poteri assoluti, senza controllo.
Ma ancora pi interessante notare che Riccobaldo, cos deluso della gestione
Estense, non pensi affatto, come rimedio, ad un comune che era impensabile far
risuscitare, ma addirittura ad un re della Valle Padana. E non il solo a
pensare cos. A tacere di altri - che erano numerosi, come rilev un'indagine
papale del 1317 -, come tutti sanno era anche la soluzione di Dante.
Dante
Anzi per Dante la forma di reggimento "monarchico" l'unica
attuabile, in base a considerazioni filosofiche, a qualunque livello, dal pi
individuale alla totalit del genere umano.
Dolcini vede nella mia interpretazione forzature evidenti:
il pensiero di Dante frainteso. Dante (e trent'anni dopo Cola) dice che sotto l'autorit dell'imperatore in luogo dei tiranni governano per il bene comune i sovrani legittimi. La tirannide non legittimata dall'alto; semplicemente dissolta e sostituita.
E invece quel luogo dantesco ha valore soltanto come esempio negativo ma tale da confermare il principio che sempre migliore il governo di uno solo.
Leggermente diversa la riserva di Quaglioni:
... nulla a che vedere con la 'necessit' della tirannide; si tratta invece della 'preferibilit' della tirannide di un singolo a quella di molti, che luogo comune a tutta la trattatistica tardo-medioevale, fino a Bodin...
Potrebbe bastare l'ammissione di Dolcini che in definitiva il principio da confermare sia che sempre migliore il governo di uno solo; ma invece questo non mi pare sufficiente. Ora, se il latino latino, non vedo proprio come si possa intendere diversamente che anche in citt unum oportetesse regimen; la necessit necessit, non c'entra il bene o il male, tanto vero che, giusto per parare una obiezione del genere, immediatamente Dante dice:et hoc non solum in recta politia, sed etiam in obliqua. Dolcini e Quaglioni sembrano intendere oportet come Ǐ meglio, preferibile, opportuno. Non credo assolutamente lecito non intendere Ǐ necessario. In primissimo luogo perch il senso va visto strettamente nel contesto; la necessit che in una famiglia uno solo sia il capo talmente ovvia, per Dante e per i suoi lettori, antichi e moderni, che non affatto bisogno di avvertire che ci deve essere anche nel caso che il capo famiglia non sia "buono"; cos per il villaggio e le altre comunit. Il fatto che Dante senta il bisogno di fare esplicitamente quell'avvertimento - ... non solum in recta politia ... - dimostra che la ferrea consequenzialit impostata non si interrompe certo nel caso della citt. In secondo luogo, ancora Dante nel caso della citt, sente il bisogno di giustificare quell'affermazione cos ostica ai suoi lettori antichi e moderni: quod si aliter fiat, non solum finis vite civilis amictitur, sed etiam civitas desinit esse quod erat, la stessa citt sarebbe un non-senso. Se non fosse cos la citt cessa di essere tale; affermazione pi limpida e contrarionon si potrebbe trovare. In questo punto Dante usa oportet, ma la stessa, identica espressione - unum oportet - ha usato prima per il capo famiglia, per il capo di villaggio, e usa dopo per il regno ed infine per la monarchia universale. I traduttori dicono bisogna, Ǐ necessario, fa d'uopo, Ǐ necessario, occorre. Il senso unico, oltre la variatio della traduzione: sarebbe veramente del tutto singolare che tutto quel che dice Dante in MonarchiaI,V,5-10 vada bene per la famiglia, per il villaggio, il regno e la monarchia, e non per la citt!
Ferreto
Insomma non bisogna lasciarsi prendere dalla retorica corrente, n dai luoghi
comuni: i contemporanei si resero conto che l'unica forma di governo che desse
garanzia di tenuta, che evitasse l'endemico scontro tra le parti era la
signoria. Vediamo di trovare altri riscontri. Prendiamo il cronista vicentino
Ferreto de' Ferreti, che spiega la venuta di Enrico VII in Italia con la
volont dell'imperatore neo-eletto di abbattere la tirannide che regna in
Italia; dobbiamo riflettere sul fatto che questo collegamento sia fatto da uno
che la storiografia ha concordemente indicato come un fedele servitore, per non
dire peggio, degli Scaligeri, con l'unica eccezione del Bowsky, che addirittura
lo diceva Guelf chronicler. Almeno fino a ieri, visto che oggi anche Arnaldi
sembra aver mutato le sue sicurezze passate in proposito. Ferreto pare aborrire
qualunque tirannide, che del resto in quegli anni si vedeva dovunque intorno, come
tutti sanno che riconosceva Dante, con tanti altri. Come dunque possibile che
un sostenitore della signoria scaligera desideri l'abbattimento delle tirannidi
da parte dell'imperatore? Si potrebbe obiettare, ad evitare l'imbarazzo, che
Ferreto in realt non vuol saperne delle crudeli tirannidi, e solo di quelle;
ma se si legge l'elenco che il vicentino scrive, poco dopo aver riferito
dell'arrivo di Enrico VII, si trova, allineato con tanti signori, anche Can
Grande, che a Verona detto presiedere allo stesso modo di un violento come
Guido Torriani, che - detto esplicitamente - a Milano esercita
inequivocabilmente una crudele tirannide... Gi, prima del vicentino - e pour
cause, visto che la storia del Ferreto per dir cos complementare a quella del
poeta-storiografo padovano -, il padovano Mussato, quando aveva dovuto
presentare la situazione dell'Italia al momento della venuta di Enrico, aveva
fatto non solo della "tirannide" il segno distintivo della citt
padana, ma pure la parola sinonimo di violenza, quasi a spiegare le divisioni e
quanto ne derivava con lo stesso instaurarsi della tirannide, non il contrario,
come saremmo portati naturalmente a pensare. Quando pensa all'Italia, quando
deve sciorinare il tappeto nomenclatorio della Valle Padana ai piedi di
Enrico, come pi o meno gi aveva fatto Paolo Diacono per Alboino, Il Ferreto
pensa e scrive un elenco di sole citt del nord. I meno provinciali avevano
certo presente la situazione generale: Dante, e poi Marsilio da Padova, ed
ancora Petrarca, guardano con nostalgia e speranza ad un imperatore occidentale
che metta ordine non solo in Italia; ma si trattava di pochi spiriti eletti.
Per il francescano Pipino, che redige una cronaca universale, di tutta la
vicenda di Enrico VII ha rilievo la sola questione se fosse o no lecita la sua
coronazione in Laterano invece che in S. Pietro. Era per successo anche
l'opposto: chi sarebbe stato propenso a guardare solo ai fatti cittadini fu
costretto ad allargare la prospettiva. L'ingresso sulla scena di Enrico fu cosa
talmente dirompente da obbligare perfino il "fiorentinissimo" Compagni a spostare pi in alto e decisamente la specola della sua storia, al
punto che a partire dal capitolo XXIII del libro III finir col parlare di
Firenze solo saltuariamente. Tuttavia in generale il vicentino ed il padovano,
il milanese ed il cremonese ed il ferrarese hanno attenzione eminente se non
precipua per la Valle Padana: qui la scena che conta, qui che citt,
signori e imperatore decidono del destino del reciproco confronto.
E qui la sperimentazione politica sul piano istituzionale aveva seguito, ed
avrebbe seguito seppure con forte squilibrio, due vie, con ancora qualche
residua possibilit di coesistenza; la "tirannica" e la repubblicana.
Orbene nella panoramica fornita dal Ferreto al momento dell'avvento imperiale
le due linee di sviluppo sono colte ed indicate all'evidenza. Si comincia da
Milano, dove domina ormai da otto anni con la sua crudele tirannide Guido
della Torre; non diversamente un tiranno governa Bergamo, Simone di Collubrano
Vercelli e Novara, Alberto Scotti Piacenza, Filippo Langosco Pavia, Martino
Lavezzari Como, Giberto da Correggio Parma, Rinaldo Passarino Bonacolsi
Mantova, Alboino e Can Grande della Scala Verona. Poi una serie, come dire,
"intermedia", che comprende i Padovani - sembrerebbe assimilati ai
tiranni - che tengono Vicenza; Rizzardo da Camino tiranno s, ma non multum
trux, a Treviso; Maffeo Mai, che subentra al fratello vescovo, a Brescia;
Cremona, a met fra regime popolare ed uno nobiliare, dove comunque hanno
particolare rilievo i Cavalcab; Antonio da Fissiraga a Lodi e Crema. Poi
decisamente l'altra sponda: Modena, Reggio e Bologna - l'unica che non deve
contrastare nessun aspirante tiranno - in mani popolari. Infine le eccezioni:
Venezia e Padova, felicemente in pace; Ferrara e la Romagna oppresse da Roberto
d'Angi per incarico papale. Lontane Firenze, Lucca e Pisa hanno cacciato i
nobili e potenti e sono tra qualche contrasto in potere del popolo. Questa
l'Italia che secondo il Ferreto Enrico di Lussemburgo si trova di fronte,
un'Italia insomma costellata di tirannie. Ma chiediamoci a questo punto qual'
il valore semantico di questa parola; che significa, per i contemporanei,
tiranno? Partiamo dal tiranno per eccellenza, Ezzelino.
Il valore di "tiranno"
Non per nulla quasi tutte le cronache erano state composte intorno alla met
del secolo, dice Andrea Castagnetti delle opere dei cronisti "ezzeliniani" per evidenziare la centralit della vicenda di Ezzelino
nella Marca Trevigiana. Certo che questa met del secolo va intesa con una
certa elasticit: Maurisio arriva fino al 1237, Rolandino al 1260, Parisio al
1277, per segnare solo tre date, e trascurarne altre che farebbero dirompere il
concetto di "met secolo" dilantandolo fino a comprendere "mezzo
secolo". Oltre il gioco di parole indubbiamente sicuro che la parabola
di Ezzelino segnasse in maniera indelebile l'intera storia della Marca per
tutto il tempo della sua durata ed anche un poco oltre. Le ragioni sono
evidenti: troppo preponderante era stata la presenza del tiranno per
antonomasia nella regione. Ma non si creda che il favore o l'avversione per il
da Romano fossero dettate dalla antipatia o dalla simpatia per le forme
istituzionali correnti dei governi cittadini; Ezzelino se era da considerare
nemico, lo era perch giudicato invasore, non come minaccia per le istituzioni
comunali. Prendiamo il conclamato campione della libert comunale padovana,
colui che vide approvata pubblicamente la sua opera storica, quasi un manifesto
ideologico antiezzeliniano, colui che, secondo lo Hyde, lasci in eredit il
suo "comunalismo" addirittura a Marsilio da Padova, Rolandino da
Padova. Rolandino sa perfettamente che le citt sono ormai il vero terreno di ogni
scontro a carattere regionale, e sa che Ezzelino considerava obiettivo tattico
l'adesione di una parscittadina per ottenere il possesso delle citt, ed
obiettivo strategico il saldo controllo delle citt al fine di tenere il suo
stato, e sapendolo articola la sua narrazione "per citt". Ma come
negare, a proposito di Rolandino, la perfino banale osservazione del Waley:
vede la storia di tale zona, in quell'epoca, in primo luogo come la storia di
quattro grandi famiglie, i marchesi d'Este e le altre grandi dinastie feudali
dei da Romano, dei Camposampiero e dei da Camino. Per lui, la storia veronese
essenzialmente una lotta tra Estensi e da Romano. I Sambonifacio e altre
famiglie vi sono coinvolti come alleati degli Estensi, quella dei Salinguerra
(i Torelli) come alleata dei da Romano. La parte del Comune quasi quella
d'una vittima passiva. All'elenco poteva almeno aggiungere i San Bonifacio,
osserva la Fasoli, avvalorando in tal modo per conto suo implicitamente
l'osservazione del Waley. E le cose non stanno certo diversamente per
l'"ezzeliniano" Maurisio, dalle cui pagine emergono i conflitti a
Vicenza solamente tra Conti e da Vivaro, Montecchi e San Bonifacio ed Estensi:
il "populus" vi appare protagonista solo in un breve momento e del
tutto cursoriamente nel 1206, e se in passato il Manselli, sulla scorta del
Simeoni, e seguito dalla Fasoli, ha insistito su di una ipotesi intuita - come
gli era solito - dal Volpe, dando credito all'esperimento ezzeliniano di un
certo favore popolare, oggi quell'ipotesi stata fortemente ridimensionata, e
potrebbe riposare solo su alcune pagine di Giovanni da Nono. Non era possibile
a nessuno non rendersi conto che tra fine XII ed inizi del XIII secolo due
informi schieramenti politici intercomunali, che trascendevano chiaramente ogni
rigida contrapposizione citt-campagna o borghesia-feudalit, avevano trovato
un crescente coordinamento proprio intorno a due illustri famiglie
"feudali": i da Romano e gli Estensi, rispettivamente, per
riprendere le parole di Bortolami. Poteva sembrare paradossale, ma non se ne
poteva prescindere. Non era stato eloquentissimo il gesto di Ottone IV che
volendo imporre una pacificazione nella Marca aveva convocato presso di s Azzo
VI, Ezzelino II e Salinguerra Torelli, non i magistrati comunali delle citt?
Il che non significa che personalmente Rolandino non sia di sincere e forti
simpatie "popolari": per lui nel 1236 il "tradimento" delle
grandi famiglie del contado lasci nelle sole, insufficienti mani del popolo
padovano le sorti della citt; e perfino il suo esser notaio potrebbe essere
inteso come motivo di naturale adesione al "populus", in particolare
a Padova, come stato brillantemente prospettato. Ma proprio il prosieguo
dello scontro con Ezzelino dimostr a tutti, oltre le simpatie personali, che
solo le grandi famiglie nobili potevano fornire un esercito efficace,
aggregazioni potenti, numerosi clienti, servi ed amici adeguati allo scontro:
magnas masnadas, vassallos multos, et amplas possessiones, per usare le
parole di Rolandino; le sorti di Padova erano insomma nelle loro mani. Per dire
che se la vicenda ezzeliniana ebbe caratteristiche ineludibili per i
contemporanei, la normalizzazione della situazione politica non fece che
confermare una tendenza in atto da lungo tempo. Quel potere coercitivo a largo
raggio che abbiamo visto non essere in grado di esercitare il comune era invece
nelle piene possibilit delle grandi famiglie. Le signorie familiari erano il
solo futuro possibile per le citt della Marca, non meno che per tante altre
citt della Padania. L'atipico incredibile resistere del regime
"popolare" di Padova, o di Bologna, o dell'ancora pi anomala
Firenze, non costituirono che eccezioni, ed alla lunga anche le eccezioni
vennero riassorbite nella norma.
Eppure il prologo della cronaca di Rolandino, scritto a bocce ferme nel 1260,
morto Ezzelino ed ormai del tutto rovinato il suo stato, presenta il libro come
un vademecum per i concittadini, giusto perch sappiano
conservare la libert che Padova semper dilexit et diligit, perch evitino
l'horribilis... crudelitas tyrannorum in civitatibus quibus presunt. L'uso
del presente rimanda naturalmente alla situazione coeva. Ma non mi pare ci si
sia mai chiesto a chi si riferiva l'autore del prologo. Non certo a Venezia,
Vicenza, Verona, Mantova, non soggetti allora a signori. A citt pi lontane,
indefinite, genericamente? Fatto che di tirannide nel 1260 e nelle immediate
vicinanze di Padova, non si poteva che alludere a Ferrara, dove fin dal 1240
esercitava un potere totale Azzo VII d'Este, colui al quale Padova pi doveva
la riconquistata libert, tanto che nelle sue mani era stato messo lo stendardo
del comune nel 1236; che solo due anni prima, nel 1258, aveva designato di
persona il podest padovano, come ricordava lo stesso cronista padovano. Chi
potrebbe dubitare dei sentimenti del padovano per il marchese d'Este per il
quale Rolandino nutriva un'evidentissima simpatia, come diceva Gina Fasoli? Se
l'allusione del prologo effettivamente alla situazione ferrarese, sembrerebbe
dunque stupefacente. Ma non lo affatto, quando invece si consideri che
immediatamente dopo il 1259 l'influenza di Azzo sul comune padovano cessa quasi
del tutto, prima di cominciare a tramutarsi in ostilit. Per il momento Padova
sembra non aver pi bisogno di sostenitori, ed i vecchi sostenitori, se troppo
potenti, possono essere pericolosi. Rolandino sembra escludere la possibilit
di accezione positiva della "tirannia": se Azzo pericoloso per la
"libertas" padovana non pu esserci via d'uscita: un crudele
tiranno. A meno che non si debba chiamarlo un "buon" tiranno...
Impossibile, perch la libert cittadina comunque inconciliabile con un
signore unico? Sembrerebbe di non poter concludere diversamente. Se non ci
fosse Riccobaldo. Che, accanto all'inhumanus tyrannus Ezzelino, al popolo
ferrarese che con l'aiuto della Chiesa romana iugum tyrannorum a cervicibus
suis excussit (e si riferisce proprio ai signori d'Este), al popolo modenese
che si libera di Azzo VIII d'Este: tyrannidem Azonis perhorrescens, cum
omnibus esset sevus et terribilis, a cervicibus eorum iugum excussit (le
parole sono le stesse, e non a caso), scrive proprio di un tyrano bono del
passato, ma soprattutto al presente di Gherardo da Camino come di un tyrannus
equissimus et civilis ac tolerabilis satis, dei Forlivesi che sponte ac
libenter raccolgono una forte somma per liberare Guido Scarpetta, quia
utrique parti equissimus tiranus fuerat (e il volgarizzatore dell'opera usa
inequivocabilmente il termine signore). La tirannide in s non dunque
assolutamente, inequivocabilmente cattiva: potevano esserci tiranni buoni e
cattivi. Tirannia una funzione politica. Poich un fatto anche se molti
studiosi non se ne vogliono convincere, che se noi parliamo di comuni e
signorie, parliamo di istituzioni, ed i singoli sembrano scomparire, mentre
questo anche il tempo della scoperta dell'individuo, e le valutazioni
"personali" hanno un peso determinante. Si pu essere personalmente
"buoni", ma "contemporaneamente "cattivi" per il ruolo
politico, come dice espressamente Riccobaldo a proposito di Azzo VII. Come non
tener conto dell'operato di coloro che nelle istituzioni operano? Ieri come
oggi. Oggi, ad esempio, si lamenta la non funzionalit delle nostre istituzioni,
che non rispecchiano il volere del paese, con una bruttissima parola dello
"scollamento" delle istituzioni. Ma pensate come diverso il
giudizio sulle istituzioni quando il
presidente della Repubblica si rifiuta di controfirmare il provvedimento
adottato dal governo sulla depenalizzazione dei crimini che hanno dato origine
a tangentopoli. E se Scalfaro avesse firmato? Insomma le istituzioni sono "funzionali" se chi vi milita si comporta in modo da renderle
credibili. Il ruolo degli individui determinante, oggi come allora. Ed
allora, in termini istituzionali, non si poteva pensare che in termini di
tirannia.
"Tiranno" come unica forma di valutazione
politica
E che quella della tirannia diventi ben presto l'unica categoria di saggio
politico nell'Italia padana degli inizi del Trecento lo dimostra all'evidenza
la vicenda di Enrico VII; perch Enrico imperatore, invocato in Italia come
risolutore delle tirannidi, diventa improvvisamente un tiranno! Anzi, si rivela
tiranno. L'identificazione della tirannia con il ghibellinismo fatto pi
tardo, anche se non di molto, e quasi esclusivamente fiorentino, ma certo ad
orientare le opinioni in tal senso la vicenda di Enrico aveva pesato non poco.
Dopo il tumulto milanese le dicerie popolari chiamavano Enrico spregiativamente
impregnator invece di imperator; ma piuttosto altre dicerie, riportate dal
Mussato, sostenevano: regem in tyrannum versum facultates populorum dissipare,
partiarium se palam ostendere. Non solo un tiranno come gli altri, ma anche
pi odioso perch forestiero. Quando Enrico si avvicina, i fiorentini dice il
Compagni in tutto si scopersono nimici dello Imperadore, chiamandolo tiranno e
crudele, e si badi che per il Compagni, che scrive queste parole, tirannide
significa fonte di ogni discordia ed avversione al "popolo". Il
Mussato fa sempre il possibile per difendere l'imperatore, e riporta l'opinione
di coloro che scusavano Enrico: regem non corruptum, sed domesticis suis
violatum aiebat, ma questa scusa demolisce implacabilmente il cremonese
Gasapino Antegnati accumulando una lunghissima serie di fatti
incontrovertibili.
Il convincimento di avere di fronte un altro despota implica la convinzione di
dover rispondere nel solito modo: Crema Cremonaque viciniores, pulsis vicariis
praesidiisque regiis iugum excussere. Dove l'uso di quest'ultima espressione
ugualmente estremamente significativo. Riccobaldo come abbiamo ricordato
l'aveva adoperata pi volte. Se si trattava ormai di uno stereotipo, tuttavia
lo era di un fenomeno organicamente legato alla tirannia. Crema e Cremona
considerano l'imperatore alla stregua di un altro dominus, e si
comportano di conseguenza. Di ci si rende conto perfino l'imperatore, che in
un discorso riportato dal Mussato, che era presente, riconosceva: En iam Longobardiae
Italiaeque civitates iustissimis accensae iracundiis (si vulgata fidem teneant)
nos ut famosos tyrannos detestantur e fugiunt. Questo era l'unico argomento di
Guido della Torre che parlava per i cremonesi: gli effetti delle azioni di
Enrico sono quelli tipici di un tiranno: onerosum vicarii iugum, populum
pauperie inediaque profligatum, impotentem contributionum, quas Caesar ipse iam
conferendas decreverat, praeterea ipsum Caesarem (quod intolerabilius erat)
Teotonicos in Latinos dimissa licentia sinere insanire. Anche le reazioni sono
analoghe: alle contribuzioni forzose si pu opporre solo il mugugno, a Milano
nei riguardi dell'imperatore, come a Ferrara nei riguardi del tiranno di casa.
Ed analogamente a soffrirne maggiormente sono le popolazioni del contado. Di
pi: Enrico un moltiplicatore di tirannidi, vecchie e nuove. A Padova, in
preda all'incubo Can Grande - in tyrannide natum -, non si poteva che essere
d'accordo: Puduit ne hunc Canem virum nefarium mutato sodalitio Vincentiae et
Paduae in pace degentium, vicarium Vincentiae constituere... Non quippe puduit
o cives... ut vos hic Canis in tyrannidem trahat.... Nicol Bonsignori,
vicario imperiale, agisce Tyranni more, dice il non sospetto Giovanni da
Cermenate; per opera sua perdita est diu desideratae libertatis spes. Si veda
tutto il discorso - riportato dal cronista milanese - del Bonsignori, che
esplicitamente assimila se stesso ai signori passati, e che, giusto come si
divulgava dei tiranni, rivendica l'assoluta libert di decisione, ut nullis
tenear legibus, adoperando una espressione del linguaggio tecnico, non
ingenuo, ma profondamente alterata semanticamente e gi divenuta proverbiale:
Tyrannis omnibus legibus superior est.
Conclusioni
La complessit del fenomeno signorile non si presta a schematismi ed a sintesi
esasperate. Potremo limitarci in sede di conclusioni a quello che abbiamo
potuto illustrare.
Il mutamento istituzionale ci fu, e netto.
Ma non agevole collocarlo con precisione poich si verific prima di fatto,
come punto estremo di un processo in corso da decenni nelle singole citt, di
concentrazione dei poteri, patrimoniali, familiari, consortili, ed infine
politici cittadini, intercittadini e regionali.
Le forme costituzionali son sufficientemente note, ma la consapevolezza del
contemporanei, poco intesa degli studiosi, va fortemente rivalutata.
Che si trattasse di un processo di razionalizzazione del potere pubblico non
ancora concluso, ma passibile di ulteriori sviluppi, inteso chiaramente dai
pi acuti dei contemporanei; anche se gli ulteriori sviluppi non si
verificarono, se non come rafforzamento delle signorie in principati, il cui
problema politico supremo fu in seguito proprio costituito dalle forme di
collegamento reciproco, nell'assenza di un potere superiore, ormai assimilato
ad uno dei tanti signori.