Il libro dei conti di fra Lafranco: una fonte insospettabile?

 

«Perché l’eresia e chi gli eretici?», si chiedeva Ovidio Capitani presentando la sua prima antologia di saggi sull’argomento nel 1971 [1]. Un approccio metodologico che scontava quanto di più naturale si poteva chiedere lo studioso – o semplicemente il curioso - circa un fenomeno che da tempo appariva, dalla più che consistente letteratura in proposito, imponente. Una domanda che diveniva, sei anni più tardi nell’Introduzione ad una seconda raccolta di saggi: ma qual’era «dopo la teoria, la pratica, dopo la tipologia, la casistica, dopo il generale il particolare»? [2]. Segno che la risposta alla prima domanda non risultava poi del tutto soddisfacente, ed abbisognava del riscontro alla seconda.

Ed è ancora naturale che gli studenti universitari che affrontano il tema cerchino immediatamente argomenti per la prima risposta, e noi, naturalmente, siamo pronti a renderli edotti delle dottrine ereticali, dell’ambiente in cui le eresie si sono manifestate, delle reazioni, soprattutto sul piano giuridico ed istituzionale, che hanno indotto. Eppure tutto ciò è preliminare, ma non basta, anzi… Ne è segno inequivocabile la definizione di eresia che risulta in uno di quegli «agili strumenti» di sintesi rivolto proprio «a chi intenda avvicinare quelle vicende per cogenti esigenze di studio o per libero desiderio di sapere “qualcosa di più”» [3]. Che cos’è dunque l’eresia per Grado Giovanni Merlo? Una somma di «esperienze di religiosità critica, di non conformismo cristiano, liberamente ispirate a uno stesso principio e pluralmente orientate a uno stesso fine: l’interpretazione e la realizzazione umane, nella contingente dimensione storica, di un messaggio che si voleva divino e definitivo» [4]. Si potrebbe essere più vaghi? Vaghi, dico, di contenuti, di principi, di istituzione, di cultura. Si tratta – come negarlo? – di una pura connotazione di “mentalità”, di atteggiamento dello spirito; i testi, la gerarchia, i riti, i centri, le sette sono puri accessori.

Mentre, dunque, non posso che compiacermi - in parte - di questa conclusione, per la mia personale, piccola storia di cultore dell’eresia bassomedievale, perfino convinto di aver contribuito ad indirizzare, con i miei lavori, a quella definizione, debbo constatare che ancora si moltiplicano, su istigazione del Maligno, immagino, studi sui libri e “maestri”, sull’ecclesiologia, sui riti e miti ereticali [5]. Ovviamente niente di male - oltre la pacifica acquisizione che non si pongono veti storiografici -, poiché tutto è utile e nulla è banale. Ma vorrei che – almeno metodologicamente - fosse chiaro l’obiettivo. Se diamo per accettato che l’eretico è quello che deduciamo dai trattati, dai manuali, dalle condanne contenute nelle bolle papali e nelle costituzioni imperiali, dalle cronache, non solo è utile, ma doveroso riempire di precisazioni quei tratti “generali”. Ma se non è così?

Esemplifichiamo: in più fonti narrative e di trattatistica antiereticale, seppur cursoriamente, Cremona è detta essere una capitale dell’eresia. Dobbiamo allora sforzarci in tutti i modi di identificare questi eretici? Catari, Valdesi, o altro? Quale o quali sette, quale credo, quale gerarchia, quali miti, quali riti? Basta quel cenno ad autorizzare una ricerca sulla ”dottrina”? Evidentemente no, visto che la parola “eresia” e derivati è forse la più ricorrente in tutta la documentazione “pubblica” due-trecentesca. Cremona è una capitale dell’eresia? E quale città non lo è? Per limitarci al settentrione, Milano è «rifugio dell’eretica pravità», «sentina di ogni errore», «madre e nutrice d’eresia», «fossa di eretici»; Bergamo, Brescia, ci si dice pullulare di eretici, straboccare di carcerati, a Verona ardono roghi di massa; Vicenza, Treviso, il Friuli, Padova, Mantova, Ferrara, Rimini, Faenza, Bologna, Modena, Parma, Piacenza, Pavia, Voghera, Tortona, Alessandria, Genova sono nella stessa situazione. Ivo di Narbona e Salimbene da Parma trovano eretici numerosi ovunque vanno. Le costituzioni ossessivamente ripetute di Lucio III, Innocenzo III, Alessandro IV, Federico I, Ottone IV, Federico II disegnano un quadro parossistico dell’Italia eretica.

E chi non è accusato di eresia? Tutti gli avversari del papa finiscono con l’essere, prima o poi, soggetti a quella condanna, singoli e gruppi famigliari, fazioni ed intere città, vescovi, conti ed imperatori. E viceversa: ogni fazione accusa d’eresia l’altra, un gruppo consortile l’altro [6]; Federico II, scomunicato ed additato come eretico, è uno dei più assidui nel legiferare contro eretici. Quasi sempre ghibellino è sinonimo di eretico: Farinata, Egidio di Cortenuova, Ezzelino, Dante... Ed eretici sono bestemmiatori, perditempo, ebrei, sodomiti, sempliciotti, fondatori di ordini religiosi e terribili condottieri.

Tutti risultano eretici per qualcuno da qualche parte. Davvero vogliamo credere che quell’accusa, tanto diffusa, non sia la più facile, proprio perché impossibile da precisare? Credere di individuare eretici “autentici” ad ogni incontro con la parola “eresia” e derivati significa dare un valore preciso e “tecnico” ad un termine adoperato quasi sempre in modo enfatico. Generalizzare vuol dire fraintendere. Ogni occorrenza va analizzata attentamente, caso per caso, luogo per luogo, tempo per tempo, persona per persona, gruppo per gruppo.

Controlliamo dunque, per quel che è possibile, sui dati sicuri, e non sulla base di deprecazioni esclamative.

Esistono tipi di fonti immediatamente colti come esenti da ogni sospetto di alterazione “ideologica”. Uno di questi è il rendiconto economico dell’inquisitore Lafranco da Bergamo, attivo a Pavia e dintorni tra 1295 e1302.

Il registro è stato oggetto di studio da parte di un valoroso studioso del passato, Girolamo Biscaro, che nel 1922 ne pubblicò, nella «Miscellanea di storia italiana», commento ed ampi estratti. Una lettura più attenta dell’originale permette di correggere molte sviste. Prima fra tutte il nome stesso dell’inquisitore, che il Biscaro lesse tranquillamente «Lanfranco», mentre si tratta di un inconsueto, ma non troppo, «Lafranco»: non c’è mai in tutto il quaderno alcun segno di abbreviazione sulla prima «a». Di altri errori di lettura, e del fraintendimento creato dalle molte omissioni dirò a suo tempo altrove.

Noto, dunque, da tempo, il libretto è stato adoperato finora - come al solito – solo per il suo valore di testimone della diffusione dell’eresia – e della corrispettiva azione inquisitoriale - nell’area geografica cui si riferisce. Proviamo ad utilizzarlo inizialmente come una pura base di dati, né più né meno.

Lafranco viene nominato inquisitore a Pavia nel settembre 1292, dove rimane senza soluzione di continuità fino al giugno 1305. Nella dozzina d’anni del suo mandato si occupa di un centinaio d’eretici. Se li immaginiamo tutti concentrati in un luogo sufficientemente preciso ed in un periodo di tempo sufficientemente condensato è una cifra che sicuramente fa impressione. Ma non è naturalmente così. Il teatro d’azione è piuttosto vasto: con centro a Pavia, ma dilatato da Bergamo fino alla Liguria, da Cremona alla bassa piemontese, con puntate fino in Istria ed alle valli del Cuneese. Alcune zone appaiono più ricettive: una ventina di eretici sono scoperti nell’Oltrepò, in montagna, attorno a Cecima-Montesegale-Rocca; quattro in Lomellina; una decina intorno a Voghera-Valenza-Mortara; tre a Vercelli e tre a Bergamo; un eretico od eretica sono individuati a Novara, Malaspina, Cremona; il resto, variamente, nel Pavese vero e proprio. Già questa disaggregazione del dato complessivo ci fa avvertiti della necessità di considerare in maniera molto relativa la somma totale. In aggiunta, com’è ovvio, la dilatazione temporale riduce ulteriormente la consistenza dei “gruppi” ereticali. Altra ragione per ritenere assolutamente erronea l’idea che si tratti di una massa compatta di eretici è fornita dalla constatazione che una decina (e forse il doppio) di questi eretici Lafranco ha avuto “in eredità” da altri inquisitori, predecessori suoi od attivi simultaneamente in regioni vicine. Non è inoltre senza rilievo che una ventina degli eretici risulti al momento della loro “scoperta” defunta da tempo. Per tutti costoro l’inquisitore non fa che mettere in vendita i loro beni, incassare il ricavato, ingiungere a chi ha usufruito dei beni degli eretici di consegnarli direttamente o riscattarli col denaro, ed a questo proposito il resoconto finanziario è sovrabbondante.

Se poi ci rivolgiamo alla “qualità” ereticale il bottino è veramente misero e ben poco significativo sul piano dell’individuazione specifica. Il 70% è composto da maschi, il 30% da donne. Sette sono detti credentes; due “consolati”; una donna risulta appartenente ai “poveri di Lione”; uno è detto “povero lombardo”; uno “valdese”; con una espressione generica si allude a “coloro che si dicono apostoli”. Mai si dice che da qualche parte sia stata individuata un “domus hereticorum” o qualche cosa di simile; mai si parla di vescovi, o “filii”, maggiori o minori, mai di “diaconi”, mai di “perfetti” ereticali o di qualche setta specifica, albanesi, concorrezzesi, bagnolesi o altro.

Tutto ciò deve far riflettere. Prima di tutto sulla natura della fonte.

Il libro dei conti di un inquisitore non è una raccolta di verbali di interrogatorio o di sentenze: la cosa è talmente ovvia che l’enunciarla appare perfino ridicolo. Lafranco presenta i conti alla camera apostolica, non fa una relazione dottrinale. Eppure l’arido libretto è utilizzabile anche per scopi diversi da quelli che hanno presieduto alla sua compilazione.

Non è sicuramente casuale che, nel periodo in cui la chiesa medievale – fra Due e Trecento - conosce l’acme della sua potenza, si moltiplichino tante e multiformi eresie “popolari” (nel senso che hanno vasta presa su ampi strati sociali). Più la chiesa si configura come organismo centralizzato, strutturalmente sostenuto da una fitta gerarchia, da una speculazione autoptica e da una ecclesiologia squisitamente “nomotetica”, più i fermenti religiosi assumono consistenza e pluralità direzionale. Segno, a mio modestissimo avviso, di una forte, progressiva dicotomia tra dirigenza religiosa e massa dei fedeli, che spiega anche – nel suo irrigidirsi crescente - le lacerazioni cristiane del Quattro e Cinquecento. Analogamente – visto che si tratta di un’istituzione particolare entro l’istituzione complessiva - più l’inquisizione appare incisiva ed attiva più appaiono eretici. Di qui l’impressione che gli eretici saltino fuori perché li si va a cercare, non perché siano essi stessi a rivelarsi come un pericolo. Ma potrebbe essere solo un’impressione, per quanto sempre più frequente; d’altra parte è insostenibile che gli eretici siano puramente un “frutto” di chi li persegue. Sull’argomento mi riprometto di riflettere a fondo in un immediato futuro. Rimane per ora certo, almeno per me, che l’attività di ricerca degli eretici da parte degli inquisitori – compreso naturalmente il nostro – “giustifichi” il loro incarico. Ma il punto è: sono gli eretici, con la loro presenza ed azione, a “giustificare” l’inquisitore, oppure è l’inquisitore che “giustifica” se stesso ed il suo ruolo catturando eretici?

Lafranco dice: ecco le entrate ed uscite della mia gestione dell’officio pavese. Ma contemporaneamente, vista la meticolosità delle registrazioni, dice anche: ho scoperto questi eretici; ne ho confiscato e venduto i beni; ho dovuto darmi molto da fare per scoprirli, pagando a destra ed a manca, officiali, notai, confidenti, vere e proprie spie di professione (alcune delle quali, poi, non hanno neppure tenuto fede alla promessa di procurarmi eretici), procurandomi cavalcature, mantenendole in vita e salute, mandando di qua e là staffette, blandendo ufficiali pubblici civili perché fossero dalla mia parte, perfino per fare opere edilizie per riparare la cella che mi sono scelto come sede. Ho dovuto impegnare gran parte del mio tempo ed energie per incassare le multe ed il ricavato delle vendite. E tutto questo mentre ero continuamente sollecitato a provvedere con aiuto in denaro alle necessità del convento dei confratelli che mi ospitavano, mentre dovevo fornire alloggio, vitto, e qualcosa d’altro, a tutti i confratelli, inquisitori e non, che passavano di qui per le più diverse destinazioni; dovevo far fronte alle contribuzioni imposte dall’ordine per questioni generali, come il processo di frate Pagano, ma estranee all’officio. Ho dovuto occuparmi di tutto, e non godo neppure di grande salute.

Come si vede la menzione degli eretici è comunque parte integrante del documento, anche se non ne è lo scopo principale (ma ne è la “giustificazione”).

Ma prima di giungere ad ulteriori conclusioni, altro bisogna preliminarmente osservare.

Della quarantina di carte che compongono il libretto solo 3 sono occupate dalle voci relative ad entrate, e tutto il resto alle uscite. Poiché il resoconto è voluto dalla camera apostolica per accertare le malversazioni degli inquisitori, di cui ormai era certezza da tempo, la diversità appare significativa. Insomma l’inquisitore dimostra – conti alla mano - che più che incassato ha speso; almeno in termini di tempo e fatica, visto che poi la gestione è nel bilancio finale più che attiva. Dimostra – almeno questa è la tesi di fondo – che gli eretici erano tanti, in zone diverse e mimetizzati, tanto che molti di loro erano tranquillamente defunti da tempo, e solo dopo un ‘intensa attività d’investigazione era stato possibile smascherarli.

Ma al di là delle intenzioni – direi nonostante le intenzioni – il quadro ereticale che ne viene non sembra proprio “giustificare” l’impresa, e soprattutto la macchina complessa messa in campo.

Gli eretici non sono poi tanti, non sono compatti, per lo più non si può neppure parlare di gruppi, ma solo di individui. Neppure la loro eresia si incanala in filoni netti e precisi. Non dispongono di sedi, di gerarchia, di cultura (mai un accenno ad un qualche libro). Non hanno creato problemi alle comunità in cui erano inseriti: nessuna autorità civile li ha denunciati, ma solo delle spie, per lo più prezzolate, o con fini ben poco nobili, come quell’ex-eretica che lo stesso inquisitore si tiene in casa come serva, ed alla quale fa ripetute elargizioni perché in totale povertà; nessuno ha sentito la necessità di costituire una confraternita, come altrove, che potesse funzionare come istituzione parainquisitoriale.

Ma si può dire di più, soprattutto a proposito della cautela necessaria nell’adoperare questo tipo di fonti.

Torniamo ai fini dell’istituzione. Dire che l’inquisitore ha il compito primario di scoprire l’eresia è sostanzialmente esatto ed incontestabile; dire che il nostro inquisitore persegue primariamente quel compito non lo è.

Lafranco, e come lui i suoi predecessori e successori a lungo, cerca eretici, persone con nome, ambiente e relazioni precise. Quello che sappiamo per altre vie, che cioè l’eresia non è oggetto della sua indagine e dei suoi mille viaggi – perché l’eresia è già stata definita altrove – qui trova una conferma all’ennesima potenza.

Dire che l’inquisitore va a caccia di eretici è esatto, ma non esaurisce tutta la sua attività. Lafranco cerca anche i fautori degli eretici, e direi proprio che, stando ai puri numeri, più i fautori degli eretici.

Dire che l’inquisitore cerca eretici e fautori è esatto, ma non solo questi. Lafranco cerca anche i semplici simpatizzanti, perfino coloro che sono semplicemente “vicini” di eretici o fautori, ed oggetto della sua attenzione solo in virtù di questa vicinanza. Soprattutto se comporta aspetti economici, case e terreni da confiscare e vendere. Un vario e complesso “alone” ereticale, dunque che sembra non porre alcun limite all’officio.

Ed analogamente varia e complessa e la natura dell’intervento dell’inquisitore una volta che sia stato identificato questo o quel grado di eresia. Prima di tutto la conversione; in caso negativo la condanna, che per non essere considerata del tutto arbitraria si avvale spesso della consulenza di altri, confratelli, o laici competenti in materia di diritto penale; quindi la punizione, l’espiazione della colpa, nella stragrande maggioranza dei casi la confisca (e vendita) di beni appartenuti agli eretici, non di rado passati in mani innocenti, ma oggettivamente colpevoli.

Per non dire della defatigante attività “fisica”: organizzazione delle spedizioni per la ricerca di testimoni e la cattura, dei processi, delle sentenze, con l’apparato formale che comporta, delle vendite, dei pagamenti, dei viaggi continui, dell’invio di messi, dell’acquisto e del mantenimento delle cavalcature, del cibo, per sé e per gli aiutanti, la legna da ardere, le riparazioni in murature, l’arredo della cella, insieme alla necessità di difendere diuturnamente il prestigio dell’ordine, degli interessi materiali e morali dell’officio e saltuariamente anche dei conventi dei confratelli in cui viene ospitato. Un’azione multiforme, che non lascia spazio a niente altro, e che non conosce praticamente confini.

E non trascuriamo le “pubbliche relazioni”: i contatti diretti ed indiretti con gli altri inquisitori, le deleghe ai confratelli, al socio, al vicario, le spie da intimorire, allettare, mantenere in caso di necessità, soprattutto il bisogno – vitale - di ottenere e conservare il favore dei governanti, degli ecclesiastici secolari come dei laici di rango.

Ma non bisogna vedere l’opera di fra Lafranco solo come soggetto; occorre anche considerarla come oggetto dell’attenzione di altri ed il condizionamento reale dell’ambiente sulle sue scelte. Perché è assolutamente innegabile che l’inquisitore deve rispondere alle direttive, papali, in primis, poi del proprio ordine, del provinciale, dell’inquisitore più considerevole della provincia, quello di Milano, deve ad ogni costo avere buoni rapporti col podestà, con gli esponenti delle famiglie più importanti, col vescovo. Cose tutte che contano molto, e che devono contare anche nell’orientare la nostra “lettura” dei suoi conti.

Poniamo attenzione, esemplificando, su tre aspetti paradigmatici: la generale mitezza delle pene inflitte, le condanne postume e l’azzonamento dei condannati.

Per quanto si continui, sulla scia di luoghi comuni, a considerare la repressione inquisitoriale caratterizzata da estrema durezza, se non addirittura da ferocia, si può dire con assoluta certezza che la violenza della repressione inquisitoriale si esercitò soprattutto sulle cose possedute dagli eretici piuttosto che sulla loro persona fisica. Il libercolo del nostro inquisitore ne è ulteriore conferma: i roghi certi sono solo due, tutti gli altri vedono confiscati e venduti i loro beni, o sono costretti al pagamento di multe in denaro. Conosciamo altrove numerosi casi di insofferenza di ampi strati di popolazioni cittadine, in qualche caso anche di chierici, nei confronti dell’officio, ed il comportamento del nostro in proposito, sembra dovuto alla necessità di presentarsi pubblicamente, pur nel rigore richiesto dal bisogno imperativo di difesa dell’ortodossia, con un atteggiamento moderato. Rigidità assoluta, applicazione automatica ed indefettibile delle pene previste dalla legislazione ecclesiastica e civile sarebbe stato controproducente: invece di stringere tutti intorno al difensore della giusta fede, avrebbe causato l’allontanamento di molti, se non un aperto conflitto. L’inquisitore giudica, ma è anche giudicato.

Sotto questo aspetto vanno considerate anche le numerose condanne di eretici defunti, spesso da lungo tempo. A Pavia città Lafranco condanna solo due viventi, tutti gli altri sono passati a miglior (probabilmente agli occhi dell’inquisitore a peggior) vita da anni, dopo essere vissuti tranquillamente, esenti da sospetti e da persecuzione da parte dell’officio. Dobbiamo considerarlo un fatto, e niente altro, prendendone semplicemente atto, e magari deducendone che gli erettici sapevano bene mascherare la loro scelta alternativa, al punto da portare a termine l’intera vita, o non è piuttosto da pensare che era ben più facile per l’inquisitore rincorrere i beni di personaggi che non potevano più nuocere in alcun modo, né ingenerare sospetti sull’azione “interessata” dell’inquisitore?

Ed ancora sotto questo aspetto va considerata l’identificazione della stragrande maggioranza di eretici non in città, ma nel distretto, e soprattutto nelle zone più periferiche, nell’Oltrepò, intorno a Voghera, ma principalmente in «montana», come si esprime Lafranco, a Rocca dei Giorgi, Decima, Oliva, Monte Acuto, Montesegale. Non è questo il ventre molle del nemico? Ma non è questa anche la zona geografica e sociale dalla quale possono venire meno resistenze “civili” all’inquisitore? Una volta assicuratosi del favore dei potenti locali, il conte Da Gambarana, il marchese Malaspina, ai quali, come puntualmente registrato, Lafranco fa giungere qualche omaggio, chi si può opporre con qualche efficacia?

Concludo rapidamente: i “dati” che desumiamo dal libro dei conti dell’inquisitore ci porterebbero a delineare un quadro dell’eresia nella regione in cui egli fu attivo che non può essere accettato acriticamente. Siamo legittimati a ricostruire le linee d’intervento dell’officio, non a parlare delle caratteristiche di questi eretici, se non con molti dubbi e distinguo.

Rassegnamoci: le fonti “insospettabili” non esistono.



[1] L’eresia medievale a c. di O. Capitani, Bologna, Il Mulino 1971 7.

[2] Medioevo ereticale a c. di O. Capitani, Bologna, Il Mulino 1977 7.

[3] G. G. Merlo Eretici ed eresia medievali Bologna, Il Mulino 1989 (Universale Paperbacks Il Mulino 230) 7.

[4] Merlo 8.

[5] L. Paolini Italian Catharism and written culture in Heresy and Literacy, 1000-1530, ed. P. Biller - A. Hudson, Cambridge, University Press 1994 83-103; R. Bertuzzi Ecclesiarum forma. Tematiche di ecclesiologia catara e valdese Roma, Quasar 1998 (Centro studi Girolamo Baruffaldi, Documenti e studi 12); A. Greco Mitologia catara. Il favoloso mondo delle origini Spoleto, CISAM 2000 (Uomini e mondi medievali 3).

[6] In fondo l’aveva avvertito anche il U. Gualazzini Il “populus” di Cremona e l’autonomia del Comune. Ricerche di storia del diritto pubblico medievale italiano con appendice di testi statutari Bologna, Zanichelli 1940 (Biblioteca della Rivista di storia del diritto italiano 14) 119: «è difficile stabilire fin dove l’eresia fosse un prodotto più o meno diretto della politica e dove l’eresia, atto comunque etico, influisse sulla politica».